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(cenciarelli i., mona a., 1999)


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(cohen e., 1997)


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(atzori g., 2003)


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(a cura del prof. curatolo p., 1999)


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il profilo cognitivo delle persone autistiche
(mona a., 1999)


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(hanau c., tratto dal sito 'autismo triveneto', 1999)


l'intervento evolutivo multicomponenziale (i.e.m.) in soggetti autistici
(guazzo g. m., aliperta d., cozzolino g., fabrizio c., liotta d., trinchese i., pervenuto alla bma il 12-11-2000)


l'uso di diete senza glutine e caseina con persone con autismo
(autism research unit, 1999)


la comunicazione facilitata in ambito giudiziario
(cenciarelli i., mona a., 1999)


le rappresentazioni della relazione tra operatori e bambini autistici
(d'amore s., onnis l., 1998)


linguaggio segnato o comunicazione simultanea
(edelson s. m.)


risultati a lungo termine per bambini con autismo che hanno ricevuto un trattamento comportamentale intensivo precoce
(O. I. Lovaas, J. J. McEachin, T. Smith, 1993)


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secretina, aggiornamento di dicembre 1999: la questione della sicurezza
(rimland b., 1999)


secretina: notizie positive e negative alla "fine del primo inning"
(rimland b., 1999)


sistema immunitario e autismo: alcune considerazioni
(colamaria v., pervenuto alla bma il 18-04-2001)


teoria della mente e autismo
(atzori g., 2003)


trattamento comportamentale ed educazione normale e funzionamento intellettivo nei bambini autistici
(lovaas o. i., 1987)


un trattamento omeopatico per l'autismo
(micozzi a., benassi f., 2002)

 

 

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L'INTERVENTO EVOLUTIVO MULTICOMPONENZIALE (I.E.M.) IN SOGGETTI AUTISTICI

Giovanni Maria Guazzo, Daniela Aliperta, Giannalisa Cozzolino, Carmelo Fabrizio, Daniela Liotta, Immacolata Trinchese (pervenuto alla bma il 12-11-2000)
Divisione di Autismo e Psicosi Infantili (DAPI), Centro di Riabilitazione Futura
Si ringrazia G. M. Guazzo per averci gentilmente fornito questo lavoro

 

sommario

   abstract - riassunto
1 premessa
   1.1 l'intervento evolutivo multicomponenziale (iem)
2 metodologia
   2.1 soggetti
   2.2 ambiente
   2.3 materiale
   2.4 procedura
   2.5 risultati
3 conclusioni
4 riferimenti bibliografici

 

 

Abstract
[sommario]

Autism is a pervasive developmental disorder characterized by severe impairment in cognitive, communicative, social and behavioral functioning. It occurs in approximately five out of every 10.000 births and is five time more common in boys than girls. As adults, about two thirds of persons with autism remain severely disabled and unable to provide even basic personal care.

In this preliminary study, the authors show the effectiveness of "Developmental Multicomponential Intervention (D.M.I.)". D.M.I. is a Futura Centre program serving children with autism and infantile psychoses. This intervention focuses on the specific behaviors exhibited and on their relation to the child's environment. Seven children with autism, from 4 to 12 years of age, have been tested with Kozloff's Behavior Evaluation Scale (B.E.S.). After a year of D.M.I., improvements in independent living skills, communication, and problem behavior were noted.

 

 

Riassunto
[sommario]

L'Autismo può essere descritto come un disturbo dello sviluppo che colpisce principalmente l'interazione sociale, la comunicazione, l'immaginazione e il repertorio delle attività e degli interessi. Studi epidemiologici hanno riscontrato, per l'autismo, un'incidenza di circa 5 bambini su 10000, con una prevalenza di maschi (circa 5 maschi per ogni femmina).

Il presente studio preliminare si propone di dimostrare l'efficacia dell'Intervento Evolutivo Multicomponenziale (I.E.M.) in termini di risultati di "normalizzazione" per bambini autistici con e senza ritardo mentale. Dopo un anno di trattamento con lo I.E.M., si sono riscontrati miglioramenti, valutati con la Behavior Evaluation Scale (B.E.S.) di Kozloff, nelle abilità di autosufficienza, nella comunicazione e nella riduzione dei comportamenti problematici.

 

 

1. Premessa
[sommario]

Dai primi studi sull'Autismo pubblicati da Kanner (1943) e da Asperger (1944) ad oggi, sono stati fatti notevoli progressi nella comprensione della sindrome autistica che può essere descritta come un disturbo dello sviluppo che colpisce principalmente l'interazione sociale (incapacità a stabilire amicizie e cercare conforto nelle persone care, mancanza di reazioni agli stimoli sociali, ecc.), la comunicazione (mutismo, ecolalia, inversione dei pronomi personali, contatto oculare raro o anomalo, ecc.), l'immaginazione (difficoltà nel gioco di finzione, gioco ripetitivo con gli oggetti, incapacità ad attribuire eventi mentali, ecc.) e il repertorio delle attività e degli interessi (attenzione focalizzata su alcune parti di oggetti o sulla loro collocazione in una stanza, reazioni violente a cambiamenti fisici nell'ambiente e a cambiamenti nella routine delle proprie abitudini, ecc.). Queste aree presentano un'estrema variabilità nel tipo di comportamenti anormali e nella gravità dei sintomi, tanto da indurre alcuni studiosi ad usare il termine "spettro autistico", invece di "sindrome autistica".

Studi epidemiologici hanno riscontrato, per l'autismo, un'incidenza di circa 5 bambini su 10000, con una prevalenza di maschi (circa 5 maschi per ogni femmina). Inoltre, circa il 70% di questi bambini presentano un ritardo mentale con un Q.I. inferiore a 70. La sindrome è individuabile prima dei 36 mesi e perdura nel corso dell'infanzia e dell'età adulta, sebbene i sintomi si modificano nel tempo.

Le numerose e disparate ipotesi sulle cause dell'autismo possono essere inserite in due ampie categorie: biologica e psicologica.

Le spiegazioni biologiche ipotizzano danni e/o anomalie del sistema nervoso centrale e mettono in risalto il ruolo del patrimonio genetico. Questa conclusione concorda con le ricerche neuroanatomiche, che hanno individuato anomalie del sistema nervoso centrale a livello dei lobi frontali ed in alcune componenti sottocorticali quali l'amigdala, l'ippo-campo ed i gangli basali, e su alcuni dati sperimentali:

a) la sindrome autistica emerge in un'età molto precoce;

b) vi sono più bambini che bambine a presentare tale problema;

c) vi sono somiglianze tra il comportamento dei bambini autistici e quello di soggetti con gravi danni cerebrali o che presentano intossicazioni di natura chimica;

d) vi è un'incidenza di autismo più alta (da 50 a 150%) per i fratelli di autistici rispetto alla popolazione senza legami di parentela.

L'insieme di questi dati sembra indicare, chiaramente, che il disturbo autistico sia determinato da fattori di natura biologica.

Le interpretazioni psicologiche, per molti anni, hanno ipotizzato che un bambino potesse diventare autistico a causa di un'esperienza esistenziale minacciosa: mancanza di legame, o un'esperienza di rifiuto, con la madre. Queste spiegazioni, però, non hanno avuto nessun sostegno sperimentale, ed è improbabile che ne trovino, sia per i molti esempi di rifiuto affettivo nell'infanzia che non hanno prodotto casi di autismo, e sia per la mancanza di differenze significative tra le modalità affettivo-educative dei genitori di bambini autistici rispetto a quelli di bambini normali o con altri tipi di handicap (Creak, Ini, 1960; Pitfield, Oppenheim, 1964; Cox, Rutter, Newman, Bartak, 1975). L'indimostrabilità di un'origine psicoaffettiva dell'Autismo ha indirizzato tutte le teorie o ipotesi recenti sulla base funzionale della sindrome verso l'individua-zione dell'origine psicologica dei disturbi comportamentali ed emotivi in uno o più aspetti dell'Human Information Processing (HIP).

Il modello HIP sembra indicare chiaramente il "focus" di un possibile intervento educativo o rieducativo che, in ogni caso, dovrà tenere conto degli elementi che nel processo di analisi delle informazioni possono risultare de­ficitari o com­promessi (Kendall, Dobson, 1993). I bambini autistici, infatti, necessitano di numerose sedute di insegnamento e quindi di un tempo molto lungo prima che abbia luogo l'apprendimento. Ciò è da attribuirsi al fatto che questi bambini non focalizzano l'attenzione sulle caratteristi­che rilevanti della situazione-stimolo. In altre parole, alcuni indizi percettivi (forma, colore, ecc.), non rilevanti al fine dell'apprendimento stesso, verrebbero ad occupare lo spazio centrale dell'attività cosciente, assumendo un carattere domi­nante, vale a dire il volume dell'attenzione in quel preciso momento. In altri casi si è notato, invece, che il deficit non sarebbe dovuto tanto ad una focalizzazione su indizi percettivi non rilevanti, quanto ad un comportamento attentivo caratte­rizzato da un'oscillazione molto ampia. Di conseguenza risulte­rebbe estremamente ridotto o del tutto inadeguato il tempo a disposizione del soggetto per "processare" l'informazione e quindi codificarla adeguatamente (Pascoletti, 1984). Diverse ricerche (Hermelin, O'Connor, 1970; Lovaas, Schreibman, Koegel, Rhem, 1971) condotte sulle modalità percettive in soggetti autistici hanno dimostrato che questi bambini non instaurano adeguato contatto attentivo con gli stimoli visivi, effettuano pochi confronti tra le varie componenti degli stimoli stessi e di conseguenza utilizzano inadeguatamente, ai fini dell'apprendimento, i dati presentati al loro campo visivo. E' facile intuire come un'attenzione orientata di volta in volta su caratteristiche irrilevanti (distrattori) determini una presta­zione scorretta, solitamente non rinforzante e non rinforzata dall'educatore. Ora, dato che le risposte non rinforzate tendo­no ad estinguersi, avremo da parte del soggetto una diminu­zione dell'attenzione e delle probabilità che il soggetto foca­lizzi altri indizi percettivi corretti. Tale meccanismo, a lungo andare, diventa la causa dei comportamenti tipici di molti allievi con autismo, i quali presentano un alto livello di casualità (o il ricorso a modalità comportamentali particolari: stereotipie, ecolalie, rituali vari, ecc.) nell'emissione delle risposte richieste.

Affolter e Stricker hanno elaborato, servendosi di un'analogia, un'in-teressante teoria gerarchica sullo sviluppo percettivo rappresentato come un edificio su quattro livelli. Al primo livello i nostri sensi si sviluppano e si perfezionano indipendentemente (livello unimodale: percezione uditiva, tattile, visiva, ecc.); al secondo livello esercitano la loro attività collaborando tra di loro al fine di padroneggiare l'ordine spaziale (livello intermodale: risposta di orientamento); al terzo livello apprendono a collaborare tra loro nell'ordine temporale (livello seriale: produzione di parole e frasi attraverso la seriazione, rispettivamente, di lettere e parole); al quarto livello, infine, i cinque sensi sono in grado di svolgere operazioni complesse e di problem solving che riguardano eventi fuori del campo proprio della percezione (eventi passati e futuri) e senza essere stati in precedenza sperimentati (livello sopramodale). Se si verifica un deficit in uno dei livelli suddetti si possono verificare due casi: 1) il passaggio al livello superiore è ritardato (ad esempio, se al primo livello si verifica un deficit in una delle modalità sensoriali, al secondo livello si produrrà una carenza e 2) i piani contigui sono, dal punto di vista prestazionale, deficitari (ad esempio, se, al primo livello, i singoli sensi si sono sviluppati normalmente, ma è carente la coordinazione fra le singole modalità sensoriali (al secondo livello), il bambino, pur udendo il suono, non orienterà lo sguardo verso lo stimolo sonoro e non cercherà di toccare l'oggetto (Bissolo, 1995). Questi deficit possono spiegare le difficoltà che alcuni bambini con ritardo mentale o con autismo hanno nello sviluppo del linguaggio, dell'imitazione, delle abilità emozionali e sociali.

Tutte queste considerazioni ci suggeriscono che per questi soggetti l'obiet­tivo dell'intervento dovrebbe consistere nell'insegnare loro a rispondere adeguatamente solo agli indizi critici delle varie situazioni-stimolo come è previsto nell'Intervento Evolutivo Multicomponenziale (IEM).

 

 

1.1. L'intervento Evolutivo Multicomponenziale (IEM)
[sommario]

I dati in nostro possesso sembrano indicare nelle strategie altamente strutturate gli strumenti più idonei a produrre miglioramenti più marcati, in certe aree evolutive, nel bambino autistico. Tra queste strategie altamente strutturate, quelle di derivazione cognitivo-comportamentale sembrano possedere maggiori capacità educativo-riabilitative. Malgrado i dati positivi, l'uso di queste strategie presenta il rischio che le abilità acquisite all'interno di una situazione programmata non vengano trasferite alle normali situazioni di vita del bambino. E' a questo punto che emerge la necessità di puntare verso un modello di intervento più articolato e flessibile, come l'Intervento Evolutivo Multicomponenziale (IEM) che prende in considerazione il modo in cui può essere organizzata una strategia terapeutica globale che utilizzi tecniche di intervento specifiche ed altamente efficaci, come quelle proposte dalla Behavior Modification, e che sia però anche capace, nella sua articolazione, di manifestare attenzione nei confronti dei problemi individuali e delle molteplici necessità della persona autistica. Un approccio di questo tipo si rivela molto utile nel trattamento dell'autismo; infatti, ogni intervento produrrà dei risultati che influenzeranno anche aspetti che non sono apparentemente oggetto di terapia. E solo attraverso la comprensione della natura complessa delle necessità del soggetto con autismo e la conoscenza delle caratteristiche e delle potenzialità dei diversi interventi è possibile evitare reciproche interferenze negative. L'intervento è caratterizzato dai seguenti aspetti (Guazzo, 1998; Guazzo, Aliperta, 1998):

 

  1. coinvolgimento dei genitori, i quali eseguono giornalmente compiti sia per favorire l'apprendimento di nuove acquisizioni che a decrementare la frequenza di comportamenti problematici;
  2. acquisizione dei prerequisiti, quali quello riguardante l'orientamen-to dell'attenzione verso l'operatore ed il suo mantenimento per un tempo necessario a garantire l'apprendimento richiesto;
  3. utilizzazione di programmi educativi, che tengano conto dell'iper-selettività dello stimolo e che usino un linguaggio estremamente chiaro e conciso per non sovraccaricare la memoria a breve termine del bambino;
  4. variazione dei compiti di apprendimento durante una stessa seduta in modo da non insistere su uno stesso compito per molto tempo;
  5. partecipazione dell'operatore con flessibilità (adattamento alle esigenze del bambino mantenendo fermi gli obiettivi) ed empatia (essere per il bambino un modello importante) all'intervento educativo;
  6. uso di rinforzatori diversi, in modo da evitare il fenomeno della saturazione: particolarmente efficace è il rinforzatore naturale;
  7. utilizzazione, durante il trattamento, di un numero di ore giornaliero piuttosto elevato;
  8. promozione della generalizzazione di abilità acquisite alle diverse situazioni di vita.

 

Alcuni ricercatori hanno osservato che, per molti tipi di intervento (il metodo di organizzazione neurologica, la comunicazione facilitata e diversi altri), la ricerca "auspica" più che dimostrare l'effettivo recupero dei deficit e la possibilità reale di un percorso "normalizzante". E' necessario, dunque, effettuare ulteriori ricerche per accertare i vantaggi di metodologie utilizzate per il trattamento della sindrome autistica.

Il presente studio preliminare si propone di rispondere alla necessità, esistente nell'ambito dell'intervento educativo-riabilitativo italiano, di dimostrare l'efficacia di Interventi come quello Evolutivo Multicomponenziale in termini di risultati di "normalizzazione" per bambini autistici con e senza ritardo mentale.

 

 

2. Metodologia
[sommario]

 

 

2.1. Soggetti
[sommario]

Il campione di questo studio è costituito da 7 bambini autistici low-functioning (cioè con diagnosi aggiuntiva di ritardo mentale oltre a quella autistica) di età compresa tra i 4 e i 12 anni (età media di 7,6 anni) frequentanti, per tre ore consecutive, la Divisione di Autismo e Psicosi Infantile (IEM) del Centro di Riabilitazione "Futura" di S. Gennarello di Ottaviano (NA).

 

 

2.2 Ambiente
[sommario]

Tutti i soggetti sono stati testati nella Divisione, in ambienti strutturati, ma privi di eccessivi stimoli acustici, olfattivi e tattili, a loro familiari, con la CARS (Childhood Autism Rating Scale) (Shopler, Reichler, Devellis, Daly, 1980) e la SAVA (Scheda per l'Analisi e la Valutazione dell'Autismo) (Guazzo, 1998).

 

 

2.3 Materiale
[sommario]

Si sono impiegati due tipi di materiali, uno protesico e l'altro di stimolazione. Si considera materiale protesico o di facilitazione il seguente: palloncini, sbarre, scale, tavole d'appoggio, ecc. La stimolazione è stata data con oggetti opportunamente variati in rapporto alle dimensioni, alla forma e alla possibilità di associare una componente acustica. Comunque, la scelta è caduta su oggetti familiari ai bambini come configurazione percettiva e non caratterizzati in qualche modo specifico: come avrebbero potuto essere oggetti appartenenti al bambino stesso.

 

 

2.4 Procedura
[sommario]

Ad ogni bambino è stata somministrata la B.E.S. (Behavior Evaluation Scale) di Kozloff (1981). Questa scala permette una dettagliata indagine qualitativa e quantitativa delle sei "aree di abilità" che, secondo Kozloff, caratterizzano lo sviluppo del bambino disabile e sono organizzate in ordine gerarchico di difficoltà: A. Prerequisiti per l'apprendimento, B. Abi-lità di guardare, ascoltare e muoversi, C. Abilità di imitazione motoria, D. Abilità di imitazione verbale, E. Linguaggio funzionale, F. Abilità di eseguire lavori domestici e di prendersi cura della propria persona. Ogni area costituisce la base per lo sviluppo delle abilità successive e richiede che il bambino padroneggi le abilità delle aree precedenti.

Spesso i bambini che hanno problemi di apprendimento mettono in at-to comportamenti disadattivi o li adottano con una frequenza maggiore. E' necessario, allora, sostituire questi comportamenti perché possono: 1) impedire al bambino di apprendere comportamenti adattivi, 2) impedire di svolgere adeguatamente comportamenti orientati al compito, 3) essere pericolosi a se stessi e alle altre persone che vivono con lui, 4) impedire un adeguato sviluppo della competenza sociale. L'area "G. Comportamenti problematici" della BES di Kozloff elenca una serie di comportamenti da sostituire, articolati in tre categorie: comportamenti distruttivi, creare disordine e comportamenti strani.

Lo scopo di questa scheda è duplice: da una parte essa permette di affrontare una valutazione iniziale del caso, identificando le abilità che il bambino possiede; dall'altra parte, la scheda è prescrittiva, cioè indica quali lacune bisogna colmare prima di passare ad apprendimenti più complessi.

L'accurata compilazione della B.E.S. ha permesso di ottenere un quadro piuttosto coerente e dettagliato dei più importanti repertori comportamentali dei bambini oggetto del presente studio.

 

2.4.1 Modalità di intervento

L'ambiente, all'interno del quale ha avuto luogo l'intervento, è stato predisposto in modo da essere accogliente, non troppo ricco di stimolazioni visive e sonore e di consentire, oltre ad un intervento in gruppi di pari, un rapporto uno-a-uno per meglio controllare la funzione degli stimoli e delle risposte. Ogni seduta individuale durava al massimo venti minuti intervallata da altre attività, della durata di cinque minuti, piacevoli per il bambino; i bambini, comunque, non potevano lasciare il setting se l'ultima risposta data non era positiva.

In particolare, ciascun soggetto è stato sottoposto, in accordo con la filosofia IEM, al seguente trattamento, strutturato in modo gerarchico ed in funzione delle abilità già possedute:

 

2.4.1.1 Contatto oculare su richiesta

L'educatore si mette seduto di fronte al soggetto (le ginocchia del bambino toccano il piano della sedia dell'educatore) in modo da poterlo controllare adeguatamente e da poter evitare ogni possibilità di fuga. L'educatore dice: "GUARDAMI" e aspetta circa tre secondi, se il soggetto non soddisfa la richiesta l'educatore dice: "NO" in modo molto deciso e perentorio. Se dopo tre volte il soggetto comunque non rispetta la consegna, l'educatore, al quarto "GUARDAMI" senza risposta, utilizza la tecnica della "guida fisica": cioè, prende con entrambe le mani la testa del ragazzo e la posiziona in modo che si stabilisce contatto oculare a questo punto rinforza con molta enfasi la situazione (Carezze, BRAVIS-SIMO, rinforzi tangibili, ecc.). Nel caso in cui il soggetto tenti la fuga dalla situazione, l'educatore lo blocca fisicamente e dice "NO" (Guazzo, Ciasullo, Scardino, 1996).

Successivamente, si utilizza la tecnica del "fading": man mano che il ragazzo dà segni di risposte positive (ad esempio, alla richiesta "GUAR-DAMI" si gira lentamente o alza leggermente lo sguardo) si attenua sempre di più l'aiuto in modo che il ragazzo alla fine non avrà più bisogno della "guida fisica" (Guazzo, 1990).

 

2.4.1.2 Attenzione e azione congiunta

L'educatore, inizialmente, organizza gli eventi antecedenti in modo da predisporre i soggetti a prestare attenzione:

a. l'educatore fa sedere il soggetto in posizione corretta al tavolo di lavoro sul quale è posto il materiale ed orienta il suo viso ed il suo sguardo verso il materiale;

b. richiama la sua attenzione mostrandogli gli oggetti e rinforza il comportamento attentivo;

c. L'educatore fa qualcosa contemporaneamente al bambino (azione congiunta);

d. L'educatore ed il soggetto guardano allo stesso tempo lo stesso oggetto o la stessa persona (attenzione congiunta);

e. L'educatore gli dà istruzioni verbali chiare e comprensibili, integrate con forme di comunicazione non verbale, circa ciò che deve fare, cioè collega il comportamento attentivo al nuovo compito. Si è utilizzato un paradigma sperimentale a doppia scelta con rinforzo della scelta corretta. In concreto, si presentano al soggetto due oggetti, o immagini, (ad esempio un bicchiere ed un cucchiaio). Gli viene proposta la parola "bicchiere" ed il bambino deve indicare l'oggetto corrispondente. Successivamente si insegna al bambino a produrre un gesto simbolico in presenza dell'oggetto "bicchiere". In seguito si associa il gesto alla parola "bicchiere". La comprensione della parola è quindi facilitata dalla sua associazione con il gesto e indirettamente con l'oggetto (Rondal, 1996).

 

2.4.1.3 Imitazione reciproca

Molti apprendimenti si basano sull'imitazione dei propri genitori attraverso giochi quali il "cu-cu-sette". Questi giochi possono essere paragonati a dialoghi gestuali a causa dell'alternanza dei turni che li caratterizza e del ritmo generale. Essi, inoltre, costituiscono un percorso particolarmente significativo per la comunicazione precoce, perché entrambi gli interlocutori possono riconoscere gli atti comuni, cioè le equivalenze "se stesso-altro" che si danno quando i movimenti di una persona riproducono quelli dell'altra (Bruner, 1983).

Il bambino che imita il genitore oltre ad essere rinforzato con attenzione, abbracci o col proseguimento del gioco che ha imitato, prova un particolare piacere perché i comportamenti dell'adulto assumono la caratteristica "ciò è simile a me" e si identifica con il genitore. L'equivalen-za "ciò è simile a me" implica delle equivalenze fra il corpo del bambino e quello degli altri, in modo da unificare in una struttura comune le azioni viste da quelle provate. Successivamente il bambino arriverà all'imitazio-ne differita, cioè all'imitazione di comportamenti umani che non sono più visibili, e all'imitazione generalizzata, cioè all'imitazione di un comportamento che non è mai stato rinforzato in precedenza. Il metodo standard di condurre il training di imitazione consiste nell'offerta al soggetto di un aiuto verbale ("... fai così", mentre si tocca il naso) insieme alla dimostrazione del comportamento stesso (l'educatore si tocca il naso). Se tale comportamento è già compreso nel repertorio comportamentale del soggetto questi lo imiterà e riceverà il rinforzatore dall'educatore. Nel caso contrario, invece, l'educatore sarà costretto ad utilizzare un training di apprendimento specifico che prevede i seguenti passi:

step 1: imitazione di comportamenti motori emessi da un adulto (il bambino imita semplici azioni, quali: lanciare una palla in direzione di un bersaglio, salire e scendere un gradino, toccare parti del proprio corpo e quelle dell'interlocutore: naso, orecchie, gomito, labbra, ecc.);

step 2: imitazione dei suoni emessi da un adulto (il bambino imita il suono emesso dall'adulto; se l'adulto imita a sua volta il suono emesso dal bambino, quest'ultimo è stimolato a continuare la ripetizione del suono, formando in questo modo una catena vocale fino a quando i suoni emessi non saranno cambiati);

step 3: imitazione di "schemi" (il bambino imita schemi che rappresentano dei modelli comportamentali più complessi: ad esempio, imita lo schema "bere" simulando la prensione di un bicchiere e portando la mano, così caratterizzata, alla bocca, o quello verbale "Vuoi andare via, ciao? con "Andare, ciao");

step 4: imitazione di un nuovo modello (il bambino imita modelli comportamentali di abilità che non possiede);

step 5: imitazione sistematica del nuovo modello (il bambino imita il nuovo modello ogniqualvolta si presenta una situazione in cui sia possibile applicarlo);

step 6: imitazione differita (il bambino è capace di usare il comportamento imitativo in un momento successivo, dal punto di vista temporale (dopo un intervallo di più giorni), spaziale (in contesti diversi: a casa, a scuola, nel Centro, ecc.) ed interpersonale (interlocutori diversi), alla pro-duzione del comportamento da parte dell'adulto);

step 7: imitazione generalizzata (il bambino imita comportamenti del-l'adulto non rinforzati in precedenza: corrispondenza tra movimenti percepiti ed intenzioni).

 

2.4.1.4 Appaiamento

Molti stimoli che precedono il comportamento possono influenzarlo, non in modo rispondente (stimolo-risposta), ma perché comportano vari rinforzamenti. Si dice, allora, che questi stimoli possiedono una proprietà discriminativa: cioè, caratterizzano la situazione (luogo o tempo) probabile in cui dei rinforzatori saranno presentati. Un rinforzatore positivo rafforza la classe di comportamenti che lo precede, ma solo in presenza di uno stimolo discriminativo e in un determinato contesto. Un'interazio-ne con funzione discriminativa, definita contingenza a quattro termini, è caratterizzata da quattro condizioni interdipendenti (Bijou, Baer, 1978): a) lo stimolo antecedente con funzione discriminativa, b) la risposta con funzione effettuale, c) lo stimolo conseguente con funzione rinforzante e d) il fattore situazionale.

Il processo discriminativo è determinante per lo sviluppo psicologico del bambino che, man mano che cresce, impara, attraverso questo processo, a controllare il suo comportamento (stimulus control): l'approvazione della madre è uno stimolo discriminativo per "andare a giocare con gli amici", per "mangiare dei dolci", per "andare sulle giostre" e così via per tanti altri rinforzatori.

Nella scelta degli stimoli discriminativi che dovrebbero servire a controllare la risposta, l'educatore deve porre un'estrema cura nel garantire il più possibile la somiglianza tra situazioni stimolo training setting e non-training setting in modo da favorire la generalizzazione. In entrambe queste situazioni il processo di apprendimento deve essere reso più facile se si scompone il compito in una serie di unità più elementari strutturate gerarchicamente; gli stimoli sono presentati a coppie e secondo le seguente fasi, a difficoltà crescente:

Fase 1: discriminazione fra oggetti molto diversi. I due stimoli fra cui selezionare una mela saranno molto diversi fra loro, pur appartenendo alla stessa categoria generale frutta. Differenze molto marcate favoriranno l'individuazione del target mela e ridurranno il numero di risposte scorrette: ad esempio, l'educatore mette sul tavolo di fronte al bambino una mela ed una banana e richiama la sua attenzione sul fatto che la mela, al contrario della banana, è tondeggiante, schiacciata su due estremità opposte di diversa grandezza ed ha un incavo in cui si trova il peduncolo. In questo modo vengono forniti stimoli discriminativi significativi e utili per la risposta corretta che può essere facilitata con procedure di pointing (focalizzare l'attenzione sul compito), modeling (fornire esempi da imitare) e fading (ridurre gradualmente lo stimolo) (Guazzo, 1996). Per tutta la durata della fase, e per la durata delle fasi successive, sono utilizzati opportuni programmi di rinforzamento per le risposte corrette.

Fase 2: discriminazione di oggetti simili. L'educatore presenta una coppia di stimoli molto simili fra loro: ad esempio, mela ed arancia con modalità e strategie analoghe a quelle utilizzate nella fase 1. La risposta target è sempre mela, ma ora le caratteristiche discriminative critiche sono altre: ad esempio, il colore la mela può essere rossa, gialla, verde, ma non arancione come l'arancia. I soggetti debbono apprendere che altri frutti possono avere forma rotonda, con estremità schiacciate e peduncolo e che quindi la "rotondità" non è una caratteristica sufficiente per identificare una mela.

Fase 3: discriminazione complessa. Discriminare, ad esempio, la mela fra più stimoli presentati contemporaneamente, con diversi livelli di similarità, in modo da selezionare adeguatamente le informazioni critiche relative alla risposta target.

Fase 4: appaiamento. Al contrario di quelle discriminative, che si riferiscono alle differenze fra classi di stimoli, le risposte concettuali sono connesse agli aspetti comuni di stimoli che appartengono alla stessa classe. L'educatore dell'esempio precedente, presenta al soggetto contemporaneamente un oggetto-stimolo (una mela) e due oggetti-campione (una pesca ed una palla di dimensioni analoghe alla pesca). Il soggetto appaia la mela-stimolo con la pesca: cioè, utilizzando condotte concettuali, utilizza, non solo le differenze apprese in precedenza, ma anche le analogie fra oggetti appartenenti alla stessa classe "frutta". La programmazione educativa prevede tre sottofasi (Ricci, 1997):

1) Preparazione:

step 1: scelta del concetto e corrispettivo enunciato di identità (è ugua-le a...);

step 2: preparazione del materiale (trovare almeno venti esempi del concetto con qualche differenza tra di loro e trovare almeno venti concetti diversi tra di loro: dieci con nessun attibuto in comune e gli altri die-ci con uno o più attributi irrilevanti in comune con gli esempi.

2) Esecuzione:

step 1: estrarre un esempio e nominarlo "questo è..."

step 2: estrarre un non-esempio (distrattore) e dire "questo non è..."

step 3: ripetere l'esercizio per almeno tre volte

step 4: estrarre due esempi e un non-esempio mostrarli all'allievo e dire "metti il ... con il ..."

step 5: ripetere fino al livello di esecuzione corretto per cinque prove consecutive senza errore;

step 6: come lo step 5 introducendo un non-esempio che ha in comune qualche attributo con l'esempio modello.

3) Verifica:

segnare il numero di risposte corrette e quelle sbagliate indicando la presenza o meno del distrattore.

 

2.4.1.5 Insegnamento incidentale

Il termine "insegnamento incidentale" si riferisce all'utilizzo sistematico e finalizzato delle interazioni che hanno luogo fra un adulto ed un bambino in una situazione non strutturata, come il gioco, allo scopo di trasmettere nuove informazioni o di far esercitare il soggetto nelle abilità comunicative (Harth, Risley, 1975).

Utilizzando, per molto tempo, l'insegnamento incidentale, la definizione del contenuto dello scambio comunicativo sa­rà una responsabilità con-divisa sia dal bambino che dall'adulto. Il bambino determinerà, di volta in volta, i centri di interesse per la discussione, mentre l'adulto tenderà a trarre vantaggio dall'argomento proposto per stimolare il bambino a ricorrere a forme linguistiche sempre più varie. L'adulto, durante l'inte-razione, utilizza una sequenza di prompts più o meno specifici per assicurare l'emissione della risposta. Per stimolare la produzione verbale inizialmente sono utilizzati cues più generali, come la presenza fisica del-l'adulto, l'attenzione focalizzata sul soggetto e un'espressione interrogativa; se il bambino non risponde entro pochi secondi, viene aggiunto un cue verbale (ad esempio, la domanda: "Cosa vuoi?"). I cues verbali dipendono dalla situazione, dal livello di abilità verbale e non verbali del soggetto e dall'obiettivo di apprendimento. Il training di insegnamento incidentale prevede due fasi, che variano in base alla modalità si presentazione: in modo diretto e tramite modello.

Fase 1: Apprendimento incidentale in modo diretto:

di tipo II: il bambino elabora informazioni che sono incidentali ad un compito presentato;

di tipo I: il bambino elabora delle informazioni al di fuori di qualsiasi compito strutturato o intenzionale.

Fase 2: Apprendimento incidentale tramite modello:

di tipo II: il bambino elabora informazioni che sono presentate da un modello ma che non sono pertinenti al compito che viene presentato;

di tipo I: il bambino, osservando una persona al di fuori di un compito strutturato, elabora alcuni elementi senza volerlo deliberatamente.

L'analisi pragmatica suggerisce che l'episodio educativo deve essere iniziato dal bambino e non dall'opera­tore come avviene invece nell'insegnamento tradizionale. In questo modo, non si consolida la tendenza del bambino ad attendere che l'adulto gli rivolga una domanda o gli dia dei suggerimenti, prima di utilizzare nella comuni­cazione un particolare modulo linguistico. Inoltre, la pratica che consiste nell'affidare il compito educativo ad un solo operatore, il quale conduce la seduta in un ambiente isolato, tende ad inibire lo sviluppo comunicativo (Carr, 1984).

Questa tecnica, dunque, facilita l'uso del linguaggio nel contesto comunicativo di ogni giorno e, nella pratica educativa, può essere schematizzata nel seguente modo (Carr, 1984): 1) la seduta di insegnamento è iniziata dall'allievo; 2) l'insegnamento si tiene in ambienti naturali; 3) il contenuto dell'insegnamento linguistico è de­ciso dall'allievo; 4) La seduta può interrompersi in qualsiasi momento anche se non è stato raggiunto il livello criteriale di prestazione; 5) si utilizzano rinforzatori naturali (il rinforzatore è il target stesso; ad esempio, il bambino chiede un giocattolo che riceve, allora il suo comportamento verbale (la richiesta) è automaticamente rinforzato dall'oggetto desiderato: il giocattolo cioè ha rinforzato naturalmente il bambino).

 

2.4.1.5.1 Natural Language Paradigm (Il paradigma del linguaggio naturale)

Il Natural Language Paradigm è una procedura che prevede sessioni di gioco in cui sono presenti molte opportunità di interazione verbale tutte rinforzate naturalmente (Koegel, O'Dell, Koegel, 1987). Rispetto al-l'insegnamento incidentale, in cui si aspetta che il soggetto dia spontaneamente inizio all'interazione verbale, l'iniziativa è intrapresa dall'ope-ratore. La procedura è caratterizzata dai seguenti punti (Laski, Charlop, Schreibman, 1980):

1. Rinforzamento naturale di ogni tentativo verbale. Tutti i tentativi verbali sono rinforzati naturalmente, consentendo al soggetto di ricevere l'oggetto o di svolgere l'attività richiesta.

2. Scambio dell'iniziativa verbale. Inizialmente è l'operatore a scegliere l'item da proporre al soggetto modellando un'espressione verbale; dopo un tentativo comunicativo adeguato e la consegna dell'item (per circa 10 sec.), il soggetto può scegliere un nuovo item su cui l'operatore modella il compito (turn-taking).

3. Variazione del compito. Una stessa azione deve essere riferita ed estesa a contesti e a situazioni diverse (prendere la penna e prendere la medicina) e uno stesso referente può essere accoppiato ad etichette differenti (comprare la pasta e cuocere la pasta).

4. Controllo condiviso. Alternanza del controllo dello stimolo fra operatore e bambino in base al turn-taking; se il bambino richiede, verbalmente o gestualmente, un giocattolo, l'operatore gli consente di prenderlo imitando il suo comportamento verbale.

 

2.4.2 Raccolta dati

Durante lo svolgimento dell'intervento, l'operatore teneva costantemente osservazioni e misurazioni accurate su apposite "schede di intervento" che monitoravano: dove, quando, con chi e come il bambino lavorava ad un certo compito, quali aiuti riceveva, come tali aiuti venivano gradualmente eliminati, i tempi e le modalità di rinforzo utilizzate (Guazzo, 1998; Guazzo, Aliperta, 1998).

Al termine del lavoro si sono raccolti i dati, relativi a tutte le aree di abilità previste dalla B.E.S., dopo sei mesi (dicembre 1998: controllo) e dopo un anno (maggio 1999: verifica) dalla misurazione basale (maggio 1998: misurazione di base) (Tab. 1).

 

 

2.5 Risultati
[sommario]

Osservando i dati riportati in Fig. 2, si evince chiaramente un miglioramento significativo, per tutte i soggetti e per tutte le aree prese in considerazione, dopo un anno di trattamento con lo I.E.M.: mediamente il miglioramento è di circa il 30%.

Come si può osservare dai grafici di Fig. 2, il dato più significativo è che il miglioramento non solo si è avuto nelle aree oggetto di intervento (A, B e C), ma anche in tutte le altre: proprio come previsto dall'Inter-vento Evolutivo Multicomponenziale che enfatizza l'uso appropriato di trattamenti specifici su particolari aree di intervento capaci, allo stesso tempo, di produrre miglioramenti o interferenze positive sulle altre aree.

In particolare, l'intervento diretto sulle aree A (Prerequisiti per l'ap-prendimento), B (Abilità di ascoltare, guardare e muoversi) e C (Abilità di imitazione motoria) ha prodotto cospicui miglioramenti in Mattia, Rocco, Marco, Anna e Gianni; mentre Maria e Carlo sembrano piuttosto "stabili" nelle aree oggetto di intervento. Lo IEM ha, comunque, prodotto dei cambiamenti anche nelle aree non oggetto di intervento diretto: D (Abilità di imitazione verbale), E (Linguaggio funzionale), F (Abilità di eseguire lavori domestici e di prendersi cura della propria persona) e G (Comportamenti problematici). Rispetto a quest'ultima valutazione, i risultati più convincenti, nonostante dei miglioramenti in tutte le aree non-di-intervento di quasi tutti i soggetti, sono da attribuirsi alle aree F e G. Questi risultati sono, molto probabilmente, da attribuirsi, oltre che all'ap-prendimento delle abilità prerequisite di base, soprattutto all'acquisi-zione dell'imitazione reciproca. Infatti, l'imitazione è per i bambini piccoli un meccanismo attraverso il quale ratificano la loro identità con quella dell'adulto: ad esempio, il bambino normale imita spontaneamente l'attività di "scopare il pavimento" o di "togliere la polvere dai mobili con uno straccio" oppure di "indossare gli stessi oggetti di ornamento" del papà o della mamma. Di conseguenza man mano che i soggetti dello studio si appropriavano delle abilità di imitazione, la utilizzavano nei propri ambienti di vita, anche soltanto in giochi di reciprocità: ad esempio, il bambino muove un oggetto sul tavolo, l'adulto fa lo stesso movimento con un oggetto identico a quello del bambino.

 

Tabella 1
Matrici dei dati rilevati dalla B.E.S. (Behavior Evaluation Scale) di Kozloff dei sette bambini oggetto del lavoro, somministrate nel Maggio 1998 (misurazione di base), a distanza di sei mesi, Dicembre 1998 (controllo), e a distanza di un anno, Giugno 1999, (verifica).

 

Marco

Gianni

  05/98 12/98 05/99 05/98 12/98 05/99

A

48

78

89

41

70

89

B

20

48

54

36

40

50

C

0

0

0

0

29

45

D

3

6

9

3

9

14

E

5

7

16

12

14

16

F

0

29

42

10

32

32

G

67

19

19

48

39

37

 

Maria

Carlo

  05/98 12/98 05/99 05/98 12/98 05/99

A

96

96

96

70

70

74

B

62

76

76

58

64

64

C

71

81

81

29

32

35

D

100

100

100

9

9

17

E

77

86

86

5

9

12

F

48

55

74

10

10

19

G

37

20

19

26

15

13

 

Mattia

Anna

Rocco

  05/98 12/98 05/99 05/98 12/98 05/99 05/98 12/98 05/99

A

37

74

89

30

59

81

30

59

59

B

56

80

80

12

14

24

46

56

62

C

3

3

42

0

29

29

39

55

58

D

26

43

43

9

29

31

11

17

66

E

12

12

23

2

16

16

2

2

19

F

13

26

45

19

55

55

23

23

39

G

52

30

22

39

39

13

33

15

15

 

Inoltre, l'imitazione di comportamenti adeguati ha prodotto una cospicua riduzione in tutti i soggetti dei comportamenti problematici che all'inizio del trattamento interferivano con l'apprendimento.

 

 

3. Conclusioni
[sommario]

L'obiettivo principale di questo studio era di verificare la validità del-l'Intervento Evolutivo Multicomponenziale con bambini autistici: i dati rilevati, nonostante l'esiguità di tempo (circa un anno), sembrano indicare chiaramente l'efficacia del trattamento non solo sulle aree oggetto di intervento, ma anche su tutte le altre previste dalla scheda di Kozloff. Questi risultati, sebbene significativi, dovrebbero essere valutati in modo indipendente su gruppi più ampi e con disegni sperimentali adeguati. In pratica, non c'è un singolo trattamento che può essere efficace per tutti i bambini con autismo. Ma un intervento "multimodale", come lo IEM, è efficace perché è flessibile, cioè è sempre focalizzato sui bisogni individuali dei bambini e delle loro famiglie e concentrato sullo sviluppo delle abilità che il bambino possiede, piuttosto che orientato a superare i deficit fondamentali.

In ultima analisi, lo IEM è efficace ma necessita di un periodo di tempo maggiore (almeno tre anni) per poter valutare adeguatamente i punti di forza e le modalità di applicazione. L'analisi qualitativa e quantitativa dei dati ha confermato l'idea che le modalità di intervento, quando sono impiegate in conformità con le caratteristiche e le potenzialità dei diversi soggetti, se integrate tra loro possono fornire un intervento che pur restando molto rigoroso ed efficace dal punto di vista metodologico, risulta flessibile e personalizzato sul piano tecnico e clinico.

 

 

4. Riferimenti bibliografici
[sommario]

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