|
|
ricerca
nel sito motori di rierca
|
|
|
|
|
documenti nella sezione
|
|
|
analisi della letteratura
in merito alla comunicazione facilitata
(cenciarelli i., mona a., 1999)
autismo:
è legato alla carenza di un enzima? - abstract
(cohen e., 1997)
autismo e linguaggio
(atzori g., 2003)
autismo ed epilessia
(a cura del prof. curatolo p., 1999)
dimetilglicina, un
metabolite non tossico e l'autismo
(rimland b., 1996)
i testi dei facilitati
svolgono le funzioni della lingua parlata?
(cenciarelli i., 1999)
il legame fra il
vaccino mmr e l'autismo ora č piů chiaro
(fracer l., 2000)
il profilo cognitivo
delle persone autistiche
(mona a., 1999)
l'autismo: nuovi
esami per trovarne le cause e migliorarne la prognosi
(hanau c., tratto dal sito 'autismo triveneto', 1999)
l'intervento evolutivo
multicomponenziale (i.e.m.) in soggetti autistici
(guazzo g. m., aliperta d., cozzolino g., fabrizio c., liotta
d., trinchese i., pervenuto alla bma il 12-11-2000)
l'uso di diete senza
glutine e caseina con persone con autismo
(autism research unit, 1999)
la comunicazione
facilitata in ambito giudiziario
(cenciarelli i., mona a., 1999)
le rappresentazioni
della relazione tra operatori e bambini autistici
(d'amore s., onnis l., 1998)
linguaggio segnato
o comunicazione simultanea
(edelson s. m.)
risultati a lungo
termine per bambini con autismo che hanno ricevuto un trattamento
comportamentale intensivo precoce
(O. I. Lovaas, J. J. McEachin, T. Smith, 1993)
ruolo dell'immunogenetica
nella diagnosi di patologie post-vaccinali nel sistema nervoso centrale
- abstract
(montinari m. g., 1995)
secretina, aggiornamento
di dicembre 1999: la questione della sicurezza
(rimland b., 1999)
secretina: notizie
positive e negative alla "fine del primo inning"
(rimland b., 1999)
sistema immunitario
e autismo: alcune considerazioni
(colamaria v., pervenuto alla bma il 18-04-2001)
teoria della mente
e autismo
(atzori g., 2003)
trattamento comportamentale
ed educazione normale e funzionamento intellettivo nei bambini
autistici
(lovaas o. i., 1987)
un trattamento
omeopatico per l'autismo
(micozzi a., benassi f., 2002)
|
|
|
indietro
| inizio
|
|
|
L'INTERVENTO EVOLUTIVO MULTICOMPONENZIALE (I.E.M.) IN SOGGETTI
AUTISTICI
Giovanni Maria Guazzo, Daniela Aliperta, Giannalisa Cozzolino,
Carmelo Fabrizio, Daniela Liotta, Immacolata Trinchese (pervenuto
alla bma il 12-11-2000)
Divisione di Autismo e Psicosi Infantili (DAPI), Centro
di Riabilitazione Futura
Si ringrazia G. M. Guazzo per averci gentilmente
fornito questo lavoro
sommario
abstract
- riassunto
1 premessa
1.1 l'intervento
evolutivo multicomponenziale (iem)
2 metodologia
2.1 soggetti
2.2 ambiente
2.3 materiale
2.4 procedura
2.5 risultati
3 conclusioni
4 riferimenti bibliografici
Autism is a pervasive developmental disorder characterized by severe
impairment in cognitive, communicative, social and behavioral functioning.
It occurs in approximately five out of every 10.000 births and is
five time more common in boys than girls. As adults, about two thirds
of persons with autism remain severely disabled and unable to provide
even basic personal care.
In this preliminary study, the authors show the effectiveness of
"Developmental Multicomponential Intervention (D.M.I.)".
D.M.I. is a Futura Centre program serving children with autism
and infantile psychoses. This intervention focuses on the specific
behaviors exhibited and on their relation to the child's environment.
Seven children with autism, from 4 to 12 years of age, have been
tested with Kozloff's Behavior Evaluation Scale (B.E.S.).
After a year of D.M.I., improvements in independent living
skills, communication, and problem behavior were noted.
L'Autismo può essere descritto come un disturbo dello sviluppo
che colpisce principalmente l'interazione sociale, la comunicazione,
l'immaginazione e il repertorio delle attività e degli interessi.
Studi epidemiologici hanno riscontrato, per l'autismo, un'incidenza
di circa 5 bambini su 10000, con una prevalenza di maschi (circa
5 maschi per ogni femmina).
Il presente studio preliminare si propone di dimostrare l'efficacia
dell'Intervento Evolutivo Multicomponenziale (I.E.M.)
in termini di risultati di "normalizzazione" per bambini autistici
con e senza ritardo mentale. Dopo un anno di trattamento con lo
I.E.M., si sono riscontrati miglioramenti, valutati con la Behavior
Evaluation Scale (B.E.S.) di Kozloff, nelle abilità di autosufficienza,
nella comunicazione e nella riduzione dei comportamenti problematici.
Dai primi studi sull'Autismo pubblicati da Kanner (1943) e da Asperger
(1944) ad oggi, sono stati fatti notevoli progressi nella comprensione
della sindrome autistica che può essere descritta come un disturbo
dello sviluppo che colpisce principalmente l'interazione sociale
(incapacità a stabilire amicizie e cercare conforto nelle persone
care, mancanza di reazioni agli stimoli sociali, ecc.), la comunicazione
(mutismo, ecolalia, inversione dei pronomi personali, contatto oculare
raro o anomalo, ecc.), l'immaginazione (difficoltà nel gioco di
finzione, gioco ripetitivo con gli oggetti, incapacità ad attribuire
eventi mentali, ecc.) e il repertorio delle attività e degli interessi
(attenzione focalizzata su alcune parti di oggetti o sulla loro
collocazione in una stanza, reazioni violente a cambiamenti fisici
nell'ambiente e a cambiamenti nella routine delle proprie abitudini,
ecc.). Queste aree presentano un'estrema variabilità nel tipo di
comportamenti anormali e nella gravità dei sintomi, tanto da indurre
alcuni studiosi ad usare il termine "spettro autistico", invece
di "sindrome autistica".
Studi epidemiologici hanno riscontrato, per l'autismo, un'incidenza
di circa 5 bambini su 10000, con una prevalenza di maschi (circa
5 maschi per ogni femmina). Inoltre, circa il 70% di questi bambini
presentano un ritardo mentale con un Q.I. inferiore a 70. La sindrome
è individuabile prima dei 36 mesi e perdura nel corso dell'infanzia
e dell'età adulta, sebbene i sintomi si modificano nel tempo.
Le numerose e disparate ipotesi sulle cause dell'autismo possono
essere inserite in due ampie categorie: biologica e psicologica.
Le spiegazioni biologiche ipotizzano danni e/o anomalie del sistema
nervoso centrale e mettono in risalto il ruolo del patrimonio genetico.
Questa conclusione concorda con le ricerche neuroanatomiche, che
hanno individuato anomalie del sistema nervoso centrale a livello
dei lobi frontali ed in alcune componenti sottocorticali quali l'amigdala,
l'ippo-campo ed i gangli basali, e su alcuni dati sperimentali:
a) la sindrome autistica emerge in un'età molto precoce;
b) vi sono più bambini che bambine a presentare tale problema;
c) vi sono somiglianze tra il comportamento dei bambini autistici
e quello di soggetti con gravi danni cerebrali o che presentano
intossicazioni di natura chimica;
d) vi è un'incidenza di autismo più alta (da 50 a 150%) per i fratelli
di autistici rispetto alla popolazione senza legami di parentela.
L'insieme di questi dati sembra indicare, chiaramente, che il disturbo
autistico sia determinato da fattori di natura biologica.
Le interpretazioni psicologiche, per molti anni, hanno ipotizzato
che un bambino potesse diventare autistico a causa di un'esperienza
esistenziale minacciosa: mancanza di legame, o un'esperienza di
rifiuto, con la madre. Queste spiegazioni, però, non hanno avuto
nessun sostegno sperimentale, ed è improbabile che ne trovino, sia
per i molti esempi di rifiuto affettivo nell'infanzia che non hanno
prodotto casi di autismo, e sia per la mancanza di differenze significative
tra le modalità affettivo-educative dei genitori di bambini autistici
rispetto a quelli di bambini normali o con altri tipi di handicap
(Creak, Ini, 1960; Pitfield, Oppenheim, 1964; Cox, Rutter, Newman,
Bartak, 1975). L'indimostrabilità di un'origine psicoaffettiva dell'Autismo
ha indirizzato tutte le teorie o ipotesi recenti sulla base funzionale
della sindrome verso l'individua-zione dell'origine psicologica
dei disturbi comportamentali ed emotivi in uno o più aspetti dell'Human
Information Processing (HIP).
Il modello HIP sembra indicare chiaramente il "focus" di
un possibile intervento educativo o rieducativo che, in ogni caso,
dovrà tenere conto degli elementi che nel processo di analisi delle
informazioni possono risultare deficitari o compromessi (Kendall,
Dobson, 1993). I bambini autistici, infatti, necessitano di numerose
sedute di insegnamento e quindi di un tempo molto lungo prima che
abbia luogo l'apprendimento. Ciò è da attribuirsi al fatto che questi
bambini non focalizzano l'attenzione sulle caratteristiche rilevanti
della situazione-stimolo. In altre parole, alcuni indizi percettivi
(forma, colore, ecc.), non rilevanti al fine dell'apprendimento
stesso, verrebbero ad occupare lo spazio centrale dell'attività
cosciente, assumendo un carattere dominante, vale a dire il volume
dell'attenzione in quel preciso momento. In altri casi si è
notato, invece, che il deficit non sarebbe dovuto tanto ad una focalizzazione
su indizi percettivi non rilevanti, quanto ad un comportamento attentivo
caratterizzato da un'oscillazione molto ampia. Di conseguenza
risulterebbe estremamente ridotto o del tutto inadeguato il tempo
a disposizione del soggetto per "processare" l'informazione e quindi
codificarla adeguatamente (Pascoletti, 1984). Diverse ricerche (Hermelin,
O'Connor, 1970; Lovaas, Schreibman, Koegel, Rhem, 1971) condotte
sulle modalità percettive in soggetti autistici hanno dimostrato
che questi bambini non instaurano adeguato contatto attentivo con
gli stimoli visivi, effettuano pochi confronti tra le varie componenti
degli stimoli stessi e di conseguenza utilizzano inadeguatamente,
ai fini dell'apprendimento, i dati presentati al loro campo visivo.
E' facile intuire come un'attenzione orientata di volta in volta
su caratteristiche irrilevanti (distrattori) determini una prestazione
scorretta, solitamente non rinforzante e non rinforzata dall'educatore.
Ora, dato che le risposte non rinforzate tendono ad estinguersi,
avremo da parte del soggetto una diminuzione dell'attenzione e
delle probabilità che il soggetto focalizzi altri indizi percettivi
corretti. Tale meccanismo, a lungo andare, diventa la causa dei
comportamenti tipici di molti allievi con autismo, i quali presentano
un alto livello di casualità (o il ricorso a modalità comportamentali
particolari: stereotipie, ecolalie, rituali vari, ecc.) nell'emissione
delle risposte richieste.
Affolter e Stricker hanno elaborato, servendosi di un'analogia,
un'in-teressante teoria gerarchica sullo sviluppo percettivo rappresentato
come un edificio su quattro livelli. Al primo livello i nostri
sensi si sviluppano e si perfezionano indipendentemente (livello
unimodale: percezione uditiva, tattile, visiva, ecc.); al secondo
livello esercitano la loro attività collaborando tra di loro
al fine di padroneggiare l'ordine spaziale (livello intermodale:
risposta di orientamento); al terzo livello apprendono a
collaborare tra loro nell'ordine temporale (livello seriale:
produzione di parole e frasi attraverso la seriazione, rispettivamente,
di lettere e parole); al quarto livello, infine, i cinque
sensi sono in grado di svolgere operazioni complesse e di problem
solving che riguardano eventi fuori del campo proprio della percezione
(eventi passati e futuri) e senza essere stati in precedenza sperimentati
(livello sopramodale). Se si verifica un deficit in uno dei
livelli suddetti si possono verificare due casi: 1) il passaggio
al livello superiore è ritardato (ad esempio, se al primo livello
si verifica un deficit in una delle modalità sensoriali, al secondo
livello si produrrà una carenza e 2) i piani contigui sono,
dal punto di vista prestazionale, deficitari (ad esempio, se, al
primo livello, i singoli sensi si sono sviluppati normalmente,
ma è carente la coordinazione fra le singole modalità sensoriali
(al secondo livello), il bambino, pur udendo il suono, non
orienterà lo sguardo verso lo stimolo sonoro e non cercherà di toccare
l'oggetto (Bissolo, 1995). Questi deficit possono spiegare le difficoltà
che alcuni bambini con ritardo mentale o con autismo hanno nello
sviluppo del linguaggio, dell'imitazione, delle abilità emozionali
e sociali.
Tutte queste considerazioni ci suggeriscono che per questi soggetti
l'obiettivo dell'intervento dovrebbe consistere nell'insegnare
loro a rispondere adeguatamente solo agli indizi critici delle varie
situazioni-stimolo come è previsto nell'Intervento Evolutivo
Multicomponenziale (IEM).
1.1. L'intervento Evolutivo Multicomponenziale
(IEM)
[sommario]
I dati in nostro possesso sembrano indicare nelle strategie altamente
strutturate gli strumenti più idonei a produrre miglioramenti più
marcati, in certe aree evolutive, nel bambino autistico. Tra queste
strategie altamente strutturate, quelle di derivazione cognitivo-comportamentale
sembrano possedere maggiori capacità educativo-riabilitative. Malgrado
i dati positivi, l'uso di queste strategie presenta il rischio che
le abilità acquisite all'interno di una situazione programmata non
vengano trasferite alle normali situazioni di vita del bambino.
E' a questo punto che emerge la necessità di puntare verso un modello
di intervento più articolato e flessibile, come l'Intervento
Evolutivo Multicomponenziale (IEM) che prende in considerazione
il modo in cui può essere organizzata una strategia terapeutica
globale che utilizzi tecniche di intervento specifiche ed altamente
efficaci, come quelle proposte dalla Behavior Modification,
e che sia però anche capace, nella sua articolazione, di manifestare
attenzione nei confronti dei problemi individuali e delle molteplici
necessità della persona autistica. Un approccio di questo tipo si
rivela molto utile nel trattamento dell'autismo; infatti, ogni intervento
produrrà dei risultati che influenzeranno anche aspetti che non
sono apparentemente oggetto di terapia. E solo attraverso la comprensione
della natura complessa delle necessità del soggetto con autismo
e la conoscenza delle caratteristiche e delle potenzialità dei diversi
interventi è possibile evitare reciproche interferenze negative.
L'intervento è caratterizzato dai seguenti aspetti (Guazzo, 1998;
Guazzo, Aliperta, 1998):
- coinvolgimento dei genitori, i quali eseguono giornalmente
compiti sia per favorire l'apprendimento di nuove acquisizioni
che a decrementare la frequenza di comportamenti problematici;
- acquisizione dei prerequisiti, quali quello riguardante l'orientamen-to
dell'attenzione verso l'operatore ed il suo mantenimento per un
tempo necessario a garantire l'apprendimento richiesto;
- utilizzazione di programmi educativi, che tengano conto dell'iper-selettività
dello stimolo e che usino un linguaggio estremamente chiaro e
conciso per non sovraccaricare la memoria a breve termine del
bambino;
- variazione dei compiti di apprendimento durante una stessa
seduta in modo da non insistere su uno stesso compito per molto
tempo;
- partecipazione dell'operatore con flessibilità (adattamento
alle esigenze del bambino mantenendo fermi gli obiettivi) ed empatia
(essere per il bambino un modello importante) all'intervento educativo;
- uso di rinforzatori diversi, in modo da evitare il fenomeno
della saturazione: particolarmente efficace è il rinforzatore
naturale;
- utilizzazione, durante il trattamento, di un numero di ore
giornaliero piuttosto elevato;
- promozione della generalizzazione di abilità acquisite alle
diverse situazioni di vita.
Alcuni ricercatori hanno osservato che, per molti tipi di intervento
(il metodo di organizzazione neurologica, la comunicazione facilitata
e diversi altri), la ricerca "auspica" più che dimostrare l'effettivo
recupero dei deficit e la possibilità reale di un percorso "normalizzante".
E' necessario, dunque, effettuare ulteriori ricerche per accertare
i vantaggi di metodologie utilizzate per il trattamento della sindrome
autistica.
Il presente studio preliminare si propone di rispondere alla necessità,
esistente nell'ambito dell'intervento educativo-riabilitativo italiano,
di dimostrare l'efficacia di Interventi come quello Evolutivo
Multicomponenziale in termini di risultati di "normalizzazione"
per bambini autistici con e senza ritardo mentale.
2. Metodologia
[sommario]
Il campione di questo studio è costituito da 7 bambini autistici
low-functioning (cioè con diagnosi aggiuntiva di ritardo mentale
oltre a quella autistica) di età compresa tra i 4 e i 12 anni (età
media di 7,6 anni) frequentanti, per tre ore consecutive, la Divisione
di Autismo e Psicosi Infantile (IEM) del Centro di Riabilitazione
"Futura" di S. Gennarello di Ottaviano (NA).
Tutti i soggetti sono stati testati nella Divisione, in ambienti
strutturati, ma privi di eccessivi stimoli acustici, olfattivi e
tattili, a loro familiari, con la CARS (Childhood Autism Rating
Scale) (Shopler, Reichler, Devellis, Daly, 1980) e la SAVA (Scheda
per l'Analisi e la Valutazione dell'Autismo) (Guazzo, 1998).
Si sono impiegati due tipi di materiali, uno protesico e l'altro
di stimolazione. Si considera materiale protesico o di facilitazione
il seguente: palloncini, sbarre, scale, tavole d'appoggio, ecc.
La stimolazione è stata data con oggetti opportunamente variati
in rapporto alle dimensioni, alla forma e alla possibilità di associare
una componente acustica. Comunque, la scelta è caduta su oggetti
familiari ai bambini come configurazione percettiva e non caratterizzati
in qualche modo specifico: come avrebbero potuto essere oggetti
appartenenti al bambino stesso.
Ad ogni bambino è stata somministrata la B.E.S. (Behavior Evaluation
Scale) di Kozloff (1981). Questa scala permette una dettagliata
indagine qualitativa e quantitativa delle sei "aree di abilità"
che, secondo Kozloff, caratterizzano lo sviluppo del bambino disabile
e sono organizzate in ordine gerarchico di difficoltà: A. Prerequisiti
per l'apprendimento, B. Abi-lità di guardare, ascoltare e muoversi,
C. Abilità di imitazione motoria, D. Abilità di imitazione verbale,
E. Linguaggio funzionale, F. Abilità di eseguire lavori domestici
e di prendersi cura della propria persona. Ogni area costituisce
la base per lo sviluppo delle abilità successive e richiede che
il bambino padroneggi le abilità delle aree precedenti.
Spesso i bambini che hanno problemi di apprendimento mettono in
at-to comportamenti disadattivi o li adottano con una frequenza
maggiore. E' necessario, allora, sostituire questi comportamenti
perché possono: 1) impedire al bambino di apprendere comportamenti
adattivi, 2) impedire di svolgere adeguatamente comportamenti orientati
al compito, 3) essere pericolosi a se stessi e alle altre persone
che vivono con lui, 4) impedire un adeguato sviluppo della competenza
sociale. L'area "G. Comportamenti problematici" della BES di Kozloff
elenca una serie di comportamenti da sostituire, articolati in tre
categorie: comportamenti distruttivi, creare disordine e comportamenti
strani.
Lo scopo di questa scheda è duplice: da una parte essa permette
di affrontare una valutazione iniziale del caso, identificando le
abilità che il bambino possiede; dall'altra parte, la scheda è prescrittiva,
cioè indica quali lacune bisogna colmare prima di passare ad apprendimenti
più complessi.
L'accurata compilazione della B.E.S. ha permesso di ottenere un
quadro piuttosto coerente e dettagliato dei più importanti repertori
comportamentali dei bambini oggetto del presente studio.
2.4.1 Modalità di intervento
L'ambiente, all'interno del quale ha avuto luogo l'intervento,
è stato predisposto in modo da essere accogliente, non troppo ricco
di stimolazioni visive e sonore e di consentire, oltre ad un intervento
in gruppi di pari, un rapporto uno-a-uno per meglio controllare
la funzione degli stimoli e delle risposte. Ogni seduta individuale
durava al massimo venti minuti intervallata da altre attività, della
durata di cinque minuti, piacevoli per il bambino; i bambini, comunque,
non potevano lasciare il setting se l'ultima risposta data
non era positiva.
In particolare, ciascun soggetto è stato sottoposto, in accordo
con la filosofia IEM, al seguente trattamento, strutturato in modo
gerarchico ed in funzione delle abilità già possedute:
2.4.1.1 Contatto oculare su richiesta
L'educatore si mette seduto di fronte al soggetto (le ginocchia
del bambino toccano il piano della sedia dell'educatore) in modo
da poterlo controllare adeguatamente e da poter evitare ogni possibilità
di fuga. L'educatore dice: "GUARDAMI" e aspetta circa
tre secondi, se il soggetto non soddisfa la richiesta l'educatore
dice: "NO" in modo molto deciso e perentorio. Se dopo
tre volte il soggetto comunque non rispetta la consegna, l'educatore,
al quarto "GUARDAMI" senza risposta, utilizza la tecnica
della "guida fisica": cioè, prende con entrambe le mani
la testa del ragazzo e la posiziona in modo che si stabilisce contatto
oculare a questo punto rinforza con molta enfasi la situazione (Carezze,
BRAVIS-SIMO, rinforzi tangibili, ecc.). Nel caso in cui il soggetto
tenti la fuga dalla situazione, l'educatore lo blocca fisicamente
e dice "NO" (Guazzo, Ciasullo, Scardino, 1996).
Successivamente, si utilizza la tecnica del "fading":
man mano che il ragazzo dà segni di risposte positive (ad esempio,
alla richiesta "GUAR-DAMI" si gira lentamente o alza leggermente
lo sguardo) si attenua sempre di più l'aiuto in modo che il ragazzo
alla fine non avrà più bisogno della "guida fisica" (Guazzo,
1990).
2.4.1.2 Attenzione e azione congiunta
L'educatore, inizialmente, organizza gli eventi antecedenti in
modo da predisporre i soggetti a prestare attenzione:
a. l'educatore fa sedere il soggetto in posizione corretta al tavolo
di lavoro sul quale è posto il materiale ed orienta il suo viso
ed il suo sguardo verso il materiale;
b. richiama la sua attenzione mostrandogli gli oggetti e rinforza
il comportamento attentivo;
c. L'educatore fa qualcosa contemporaneamente al bambino (azione
congiunta);
d. L'educatore ed il soggetto guardano allo stesso tempo lo stesso
oggetto o la stessa persona (attenzione congiunta);
e. L'educatore gli dà istruzioni verbali chiare e comprensibili,
integrate con forme di comunicazione non verbale, circa ciò che
deve fare, cioè collega il comportamento attentivo al nuovo compito.
Si è utilizzato un paradigma sperimentale a doppia scelta con rinforzo
della scelta corretta. In concreto, si presentano al soggetto due
oggetti, o immagini, (ad esempio un bicchiere ed un cucchiaio).
Gli viene proposta la parola "bicchiere" ed il bambino deve indicare
l'oggetto corrispondente. Successivamente si insegna al bambino
a produrre un gesto simbolico in presenza dell'oggetto "bicchiere".
In seguito si associa il gesto alla parola "bicchiere". La comprensione
della parola è quindi facilitata dalla sua associazione con il gesto
e indirettamente con l'oggetto (Rondal, 1996).
2.4.1.3 Imitazione reciproca
Molti apprendimenti si basano sull'imitazione dei propri genitori
attraverso giochi quali il "cu-cu-sette". Questi giochi possono
essere paragonati a dialoghi gestuali a causa dell'alternanza dei
turni che li caratterizza e del ritmo generale. Essi, inoltre, costituiscono
un percorso particolarmente significativo per la comunicazione precoce,
perché entrambi gli interlocutori possono riconoscere gli atti comuni,
cioè le equivalenze "se stesso-altro" che si danno quando i movimenti
di una persona riproducono quelli dell'altra (Bruner, 1983).
Il bambino che imita il genitore oltre ad essere rinforzato con
attenzione, abbracci o col proseguimento del gioco che ha imitato,
prova un particolare piacere perché i comportamenti dell'adulto
assumono la caratteristica "ciò è simile a me" e si identifica con
il genitore. L'equivalen-za "ciò è simile a me" implica delle equivalenze
fra il corpo del bambino e quello degli altri, in modo da unificare
in una struttura comune le azioni viste da quelle provate. Successivamente
il bambino arriverà all'imitazio-ne differita, cioè
all'imitazione di comportamenti umani che non sono più visibili,
e all'imitazione generalizzata, cioè all'imitazione
di un comportamento che non è mai stato rinforzato in precedenza.
Il metodo standard di condurre il training di imitazione consiste
nell'offerta al soggetto di un aiuto verbale ("... fai così", mentre
si tocca il naso) insieme alla dimostrazione del comportamento stesso
(l'educatore si tocca il naso). Se tale comportamento è già compreso
nel repertorio comportamentale del soggetto questi lo imiterà e
riceverà il rinforzatore dall'educatore. Nel caso contrario, invece,
l'educatore sarà costretto ad utilizzare un training di apprendimento
specifico che prevede i seguenti passi:
step 1: imitazione di comportamenti motori emessi da un
adulto (il bambino imita semplici azioni, quali: lanciare una palla
in direzione di un bersaglio, salire e scendere un gradino, toccare
parti del proprio corpo e quelle dell'interlocutore: naso, orecchie,
gomito, labbra, ecc.);
step 2: imitazione dei suoni emessi da un adulto (il bambino
imita il suono emesso dall'adulto; se l'adulto imita a sua volta
il suono emesso dal bambino, quest'ultimo è stimolato a continuare
la ripetizione del suono, formando in questo modo una catena vocale
fino a quando i suoni emessi non saranno cambiati);
step 3: imitazione di "schemi" (il bambino imita schemi
che rappresentano dei modelli comportamentali più complessi: ad
esempio, imita lo schema "bere" simulando la prensione di un bicchiere
e portando la mano, così caratterizzata, alla bocca, o quello verbale
"Vuoi andare via, ciao? con "Andare, ciao");
step 4: imitazione di un nuovo modello (il bambino imita
modelli comportamentali di abilità che non possiede);
step 5: imitazione sistematica del nuovo modello (il bambino
imita il nuovo modello ogniqualvolta si presenta una situazione
in cui sia possibile applicarlo);
step 6: imitazione differita (il bambino è capace di usare
il comportamento imitativo in un momento successivo, dal punto di
vista temporale (dopo un intervallo di più giorni), spaziale (in
contesti diversi: a casa, a scuola, nel Centro, ecc.) ed interpersonale
(interlocutori diversi), alla pro-duzione del comportamento da parte
dell'adulto);
step 7: imitazione generalizzata (il bambino imita comportamenti
del-l'adulto non rinforzati in precedenza: corrispondenza tra movimenti
percepiti ed intenzioni).
2.4.1.4 Appaiamento
Molti stimoli che precedono il comportamento possono influenzarlo,
non in modo rispondente (stimolo-risposta), ma perché comportano
vari rinforzamenti. Si dice, allora, che questi stimoli possiedono
una proprietà discriminativa: cioè, caratterizzano la situazione
(luogo o tempo) probabile in cui dei rinforzatori saranno presentati.
Un rinforzatore positivo rafforza la classe di comportamenti che
lo precede, ma solo in presenza di uno stimolo discriminativo e
in un determinato contesto. Un'interazio-ne con funzione discriminativa,
definita contingenza a quattro termini, è caratterizzata
da quattro condizioni interdipendenti (Bijou, Baer, 1978): a) lo
stimolo antecedente con funzione discriminativa, b) la risposta
con funzione effettuale, c) lo stimolo conseguente con funzione
rinforzante e d) il fattore situazionale.
Il processo discriminativo è determinante per lo sviluppo psicologico
del bambino che, man mano che cresce, impara, attraverso questo
processo, a controllare il suo comportamento (stimulus control):
l'approvazione della madre è uno stimolo discriminativo per "andare
a giocare con gli amici", per "mangiare dei dolci", per "andare
sulle giostre" e così via per tanti altri rinforzatori.
Nella scelta degli stimoli discriminativi che dovrebbero servire
a controllare la risposta, l'educatore deve porre un'estrema cura
nel garantire il più possibile la somiglianza tra situazioni stimolo
training setting e non-training setting in modo da
favorire la generalizzazione. In entrambe queste situazioni il processo
di apprendimento deve essere reso più facile se si scompone il compito
in una serie di unità più elementari strutturate gerarchicamente;
gli stimoli sono presentati a coppie e secondo le seguente fasi,
a difficoltà crescente:
Fase 1: discriminazione fra oggetti molto
diversi. I due stimoli fra cui selezionare una mela saranno
molto diversi fra loro, pur appartenendo alla stessa categoria generale
frutta. Differenze molto marcate favoriranno l'individuazione del
target mela e ridurranno il numero di risposte scorrette: ad esempio,
l'educatore mette sul tavolo di fronte al bambino una mela ed una
banana e richiama la sua attenzione sul fatto che la mela, al contrario
della banana, è tondeggiante, schiacciata su due estremità opposte
di diversa grandezza ed ha un incavo in cui si trova il peduncolo.
In questo modo vengono forniti stimoli discriminativi significativi
e utili per la risposta corretta che può essere facilitata con procedure
di pointing (focalizzare l'attenzione sul compito), modeling
(fornire esempi da imitare) e fading (ridurre gradualmente
lo stimolo) (Guazzo, 1996). Per tutta la durata della fase, e per
la durata delle fasi successive, sono utilizzati opportuni programmi
di rinforzamento per le risposte corrette.
Fase 2: discriminazione di oggetti simili.
L'educatore presenta una coppia di stimoli molto simili fra loro:
ad esempio, mela ed arancia con modalità e strategie analoghe a
quelle utilizzate nella fase 1. La risposta target è sempre mela,
ma ora le caratteristiche discriminative critiche sono altre: ad
esempio, il colore la mela può essere rossa, gialla, verde, ma non
arancione come l'arancia. I soggetti debbono apprendere che altri
frutti possono avere forma rotonda, con estremità schiacciate e
peduncolo e che quindi la "rotondità" non è una caratteristica sufficiente
per identificare una mela.
Fase 3: discriminazione complessa.
Discriminare, ad esempio, la mela fra più stimoli presentati contemporaneamente,
con diversi livelli di similarità, in modo da selezionare adeguatamente
le informazioni critiche relative alla risposta target.
Fase 4: appaiamento. Al contrario di
quelle discriminative, che si riferiscono alle differenze fra classi
di stimoli, le risposte concettuali sono connesse agli aspetti comuni
di stimoli che appartengono alla stessa classe. L'educatore dell'esempio
precedente, presenta al soggetto contemporaneamente un oggetto-stimolo
(una mela) e due oggetti-campione (una pesca ed una palla di dimensioni
analoghe alla pesca). Il soggetto appaia la mela-stimolo con la
pesca: cioè, utilizzando condotte concettuali, utilizza, non solo
le differenze apprese in precedenza, ma anche le analogie fra oggetti
appartenenti alla stessa classe "frutta". La programmazione educativa
prevede tre sottofasi (Ricci, 1997):
1) Preparazione:
step 1: scelta del concetto e corrispettivo enunciato di
identità (è ugua-le a...);
step 2: preparazione del materiale (trovare almeno
venti esempi del concetto con qualche differenza tra di loro e trovare
almeno venti concetti diversi tra di loro: dieci con nessun attibuto
in comune e gli altri die-ci con uno o più attributi irrilevanti
in comune con gli esempi.
2) Esecuzione:
step 1: estrarre un esempio e nominarlo "questo è..."
step 2: estrarre un non-esempio (distrattore) e dire "questo
non è..."
step 3: ripetere l'esercizio per almeno tre volte
step 4: estrarre due esempi e un non-esempio mostrarli all'allievo
e dire "metti il ... con il ..."
step 5: ripetere fino al livello di esecuzione corretto
per cinque prove consecutive senza errore;
step 6: come lo step 5 introducendo un non-esempio che ha
in comune qualche attributo con l'esempio modello.
3) Verifica:
segnare il numero di risposte corrette e quelle sbagliate indicando
la presenza o meno del distrattore.
2.4.1.5 Insegnamento incidentale
Il termine "insegnamento incidentale" si riferisce all'utilizzo
sistematico e finalizzato delle interazioni che hanno luogo fra
un adulto ed un bambino in una situazione non strutturata, come
il gioco, allo scopo di trasmettere nuove informazioni o di far
esercitare il soggetto nelle abilità comunicative (Harth, Risley,
1975).
Utilizzando, per molto tempo, l'insegnamento incidentale, la definizione
del contenuto dello scambio comunicativo sarà una responsabilità
con-divisa sia dal bambino che dall'adulto. Il bambino determinerà,
di volta in volta, i centri di interesse per la discussione, mentre
l'adulto tenderà a trarre vantaggio dall'argomento proposto per
stimolare il bambino a ricorrere a forme linguistiche sempre più
varie. L'adulto, durante l'inte-razione, utilizza una sequenza di
prompts più o meno specifici per assicurare l'emissione della
risposta. Per stimolare la produzione verbale inizialmente sono
utilizzati cues più generali, come la presenza fisica del-l'adulto,
l'attenzione focalizzata sul soggetto e un'espressione interrogativa;
se il bambino non risponde entro pochi secondi, viene aggiunto un
cue verbale (ad esempio, la domanda: "Cosa vuoi?"). I cues
verbali dipendono dalla situazione, dal livello di abilità verbale
e non verbali del soggetto e dall'obiettivo di apprendimento. Il
training di insegnamento incidentale prevede due fasi, che variano
in base alla modalità si presentazione: in modo diretto e tramite
modello.
Fase 1: Apprendimento incidentale in modo diretto:
di tipo II: il bambino elabora informazioni che sono incidentali
ad un compito presentato;
di tipo I: il bambino elabora delle informazioni al di fuori
di qualsiasi compito strutturato o intenzionale.
Fase 2: Apprendimento incidentale tramite modello:
di tipo II: il bambino elabora informazioni che sono presentate
da un modello ma che non sono pertinenti al compito che viene presentato;
di tipo I: il bambino, osservando una persona al di fuori
di un compito strutturato, elabora alcuni elementi senza volerlo
deliberatamente.
L'analisi pragmatica suggerisce che l'episodio educativo deve essere
iniziato dal bambino e non dall'operatore come avviene invece nell'insegnamento
tradizionale. In questo modo, non si consolida la tendenza del bambino
ad attendere che l'adulto gli rivolga una domanda o gli dia dei
suggerimenti, prima di utilizzare nella comunicazione un particolare
modulo linguistico. Inoltre, la pratica che consiste nell'affidare
il compito educativo ad un solo operatore, il quale conduce la seduta
in un ambiente isolato, tende ad inibire lo sviluppo comunicativo
(Carr, 1984).
Questa tecnica, dunque, facilita l'uso del linguaggio nel contesto
comunicativo di ogni giorno e, nella pratica educativa, può essere
schematizzata nel seguente modo (Carr, 1984): 1) la seduta di insegnamento
è iniziata dall'allievo; 2) l'insegnamento si tiene in ambienti
naturali; 3) il contenuto dell'insegnamento linguistico è deciso
dall'allievo; 4) La seduta può interrompersi in qualsiasi momento
anche se non è stato raggiunto il livello criteriale di prestazione;
5) si utilizzano rinforzatori naturali (il rinforzatore è il target
stesso; ad esempio, il bambino chiede un giocattolo che riceve,
allora il suo comportamento verbale (la richiesta) è automaticamente
rinforzato dall'oggetto desiderato: il giocattolo cioè ha rinforzato
naturalmente il bambino).
2.4.1.5.1 Natural Language Paradigm (Il paradigma del linguaggio
naturale)
Il Natural Language Paradigm è una procedura che prevede
sessioni di gioco in cui sono presenti molte opportunità di interazione
verbale tutte rinforzate naturalmente (Koegel, O'Dell, Koegel, 1987).
Rispetto al-l'insegnamento incidentale, in cui si aspetta che il
soggetto dia spontaneamente inizio all'interazione verbale, l'iniziativa
è intrapresa dall'ope-ratore. La procedura è caratterizzata dai
seguenti punti (Laski, Charlop, Schreibman, 1980):
1. Rinforzamento naturale di ogni tentativo verbale. Tutti
i tentativi verbali sono rinforzati naturalmente, consentendo al
soggetto di ricevere l'oggetto o di svolgere l'attività richiesta.
2. Scambio dell'iniziativa verbale. Inizialmente è l'operatore
a scegliere l'item da proporre al soggetto modellando un'espressione
verbale; dopo un tentativo comunicativo adeguato e la consegna dell'item
(per circa 10 sec.), il soggetto può scegliere un nuovo item su
cui l'operatore modella il compito (turn-taking).
3. Variazione del compito. Una stessa azione deve essere
riferita ed estesa a contesti e a situazioni diverse (prendere
la penna e prendere la medicina) e uno stesso referente può
essere accoppiato ad etichette differenti (comprare la pasta
e cuocere la pasta).
4. Controllo condiviso. Alternanza del controllo dello stimolo
fra operatore e bambino in base al turn-taking; se il bambino
richiede, verbalmente o gestualmente, un giocattolo, l'operatore
gli consente di prenderlo imitando il suo comportamento verbale.
2.4.2 Raccolta dati
Durante lo svolgimento dell'intervento, l'operatore teneva costantemente
osservazioni e misurazioni accurate su apposite "schede di intervento"
che monitoravano: dove, quando, con chi e come il bambino lavorava
ad un certo compito, quali aiuti riceveva, come tali aiuti venivano
gradualmente eliminati, i tempi e le modalità di rinforzo utilizzate
(Guazzo, 1998; Guazzo, Aliperta, 1998).
Al termine del lavoro si sono raccolti i dati, relativi a tutte
le aree di abilità previste dalla B.E.S., dopo sei mesi (dicembre
1998: controllo) e dopo un anno (maggio 1999: verifica) dalla misurazione
basale (maggio 1998: misurazione di base) (Tab.
1).
Osservando i dati riportati in Fig. 2, si evince chiaramente un
miglioramento significativo, per tutte i soggetti e per tutte le
aree prese in considerazione, dopo un anno di trattamento con lo
I.E.M.: mediamente il miglioramento è di circa il 30%.
Come si può osservare dai grafici di Fig. 2, il dato più significativo
è che il miglioramento non solo si è avuto nelle aree oggetto di
intervento (A, B e C), ma anche in tutte le altre: proprio come
previsto dall'Inter-vento Evolutivo Multicomponenziale
che enfatizza l'uso appropriato di trattamenti specifici su particolari
aree di intervento capaci, allo stesso tempo, di produrre miglioramenti
o interferenze positive sulle altre aree.
In particolare, l'intervento diretto sulle aree A (Prerequisiti
per l'ap-prendimento), B (Abilità di ascoltare, guardare e muoversi)
e C (Abilità di imitazione motoria) ha prodotto cospicui miglioramenti
in Mattia, Rocco, Marco, Anna e Gianni; mentre Maria e Carlo sembrano
piuttosto "stabili" nelle aree oggetto di intervento. Lo IEM ha,
comunque, prodotto dei cambiamenti anche nelle aree non oggetto
di intervento diretto: D (Abilità di imitazione verbale), E (Linguaggio
funzionale), F (Abilità di eseguire lavori domestici e di prendersi
cura della propria persona) e G (Comportamenti problematici). Rispetto
a quest'ultima valutazione, i risultati più convincenti, nonostante
dei miglioramenti in tutte le aree non-di-intervento di quasi tutti
i soggetti, sono da attribuirsi alle aree F e G. Questi risultati
sono, molto probabilmente, da attribuirsi, oltre che all'ap-prendimento
delle abilità prerequisite di base, soprattutto all'acquisi-zione
dell'imitazione reciproca. Infatti, l'imitazione è per i bambini
piccoli un meccanismo attraverso il quale ratificano la loro identità
con quella dell'adulto: ad esempio, il bambino normale imita spontaneamente
l'attività di "scopare il pavimento" o di "togliere la polvere dai
mobili con uno straccio" oppure di "indossare gli stessi oggetti
di ornamento" del papà o della mamma. Di conseguenza man mano che
i soggetti dello studio si appropriavano delle abilità di imitazione,
la utilizzavano nei propri ambienti di vita, anche soltanto in giochi
di reciprocità: ad esempio, il bambino muove un oggetto sul tavolo,
l'adulto fa lo stesso movimento con un oggetto identico a quello
del bambino.
Tabella 1
Matrici dei dati rilevati dalla B.E.S. (Behavior Evaluation Scale)
di Kozloff dei sette bambini oggetto del lavoro, somministrate nel
Maggio 1998 (misurazione di base), a distanza di sei mesi, Dicembre
1998 (controllo), e a distanza di un anno, Giugno 1999, (verifica).
|
Marco
|
Gianni
|
|
05/98
|
12/98
|
05/99
|
05/98
|
12/98
|
05/99
|
A
|
48
|
78
|
89
|
41
|
70
|
89
|
B
|
20
|
48
|
54
|
36
|
40
|
50
|
C
|
0
|
0
|
0
|
0
|
29
|
45
|
D
|
3
|
6
|
9
|
3
|
9
|
14
|
E
|
5
|
7
|
16
|
12
|
14
|
16
|
F
|
0
|
29
|
42
|
10
|
32
|
32
|
G
|
67
|
19
|
19
|
48
|
39
|
37
|
|
Maria
|
Carlo
|
|
05/98
|
12/98
|
05/99
|
05/98
|
12/98
|
05/99
|
A
|
96
|
96
|
96
|
70
|
70
|
74
|
B
|
62
|
76
|
76
|
58
|
64
|
64
|
C
|
71
|
81
|
81
|
29
|
32
|
35
|
D
|
100
|
100
|
100
|
9
|
9
|
17
|
E
|
77
|
86
|
86
|
5
|
9
|
12
|
F
|
48
|
55
|
74
|
10
|
10
|
19
|
G
|
37
|
20
|
19
|
26
|
15
|
13
|
|
Mattia
|
Anna
|
Rocco
|
|
05/98 |
12/98 |
05/99 |
05/98 |
12/98 |
05/99 |
05/98 |
12/98 |
05/99 |
A
|
37
|
74
|
89
|
30
|
59
|
81
|
30
|
59
|
59
|
B
|
56
|
80
|
80
|
12
|
14
|
24
|
46
|
56
|
62
|
C
|
3
|
3
|
42
|
0
|
29
|
29
|
39
|
55
|
58
|
D
|
26
|
43
|
43
|
9
|
29
|
31
|
11
|
17
|
66
|
E
|
12
|
12
|
23
|
2
|
16
|
16
|
2
|
2
|
19
|
F
|
13
|
26
|
45
|
19
|
55
|
55
|
23
|
23
|
39
|
G
|
52
|
30
|
22
|
39
|
39
|
13
|
33
|
15
|
15
|
Inoltre, l'imitazione di comportamenti adeguati ha prodotto una
cospicua riduzione in tutti i soggetti dei comportamenti problematici
che all'inizio del trattamento interferivano con l'apprendimento.
3. Conclusioni
[sommario]
L'obiettivo principale di questo studio era di verificare la validità
del-l'Intervento Evolutivo Multicomponenziale con
bambini autistici: i dati rilevati, nonostante l'esiguità di tempo
(circa un anno), sembrano indicare chiaramente l'efficacia del trattamento
non solo sulle aree oggetto di intervento, ma anche su tutte le
altre previste dalla scheda di Kozloff. Questi risultati, sebbene
significativi, dovrebbero essere valutati in modo indipendente su
gruppi più ampi e con disegni sperimentali adeguati. In pratica,
non c'è un singolo trattamento che può essere efficace per tutti
i bambini con autismo. Ma un intervento "multimodale", come lo IEM,
è efficace perché è flessibile, cioè è sempre focalizzato sui bisogni
individuali dei bambini e delle loro famiglie e concentrato sullo
sviluppo delle abilità che il bambino possiede, piuttosto che orientato
a superare i deficit fondamentali.
In ultima analisi, lo IEM è efficace ma necessita di un periodo
di tempo maggiore (almeno tre anni) per poter valutare adeguatamente
i punti di forza e le modalità di applicazione. L'analisi qualitativa
e quantitativa dei dati ha confermato l'idea che le modalità di
intervento, quando sono impiegate in conformità con le caratteristiche
e le potenzialità dei diversi soggetti, se integrate tra loro possono
fornire un intervento che pur restando molto rigoroso ed efficace
dal punto di vista metodologico, risulta flessibile e personalizzato
sul piano tecnico e clinico.
4. Riferimenti bibliografici
[sommario]
Asperger H. (1944), [1991]
Autistic psychopathy' in childhood". In Frith U., (Ed.),
Autism and Asperger syndrome,
Cambridge University Press, Cambridge, UK, 37-92.
Bijou S.W., Baer D.M. (1978).
Behavior analysis of child development.
Englewood-Cliffs, N.J.: Prentice Hall.
Bissolo G. (1995).
Il processo di apprendimento,
Dispensa non pubblicata.
Bruner J.S. (1983).
Child's talk: learning to use language.
New York: Norton.
Carr E.G. (1984).
Il bambino autistico e l'educazione al linguaggio.
HD, 2, 26-35.
Cox A., Rutter M., Newman S., Bartak L. (1975).
A comparative study of infantil autism and specific developmental
language disorders: II parental characteristic.
British Journal of Psychiatry, 126, 146-154.
Creak M., Ini S. (1960).
Families of psychotic children.
Journal of Child Psychology and Psychiatry, 1, 156-162.
Guazzo G.M. (1990).
Handicap e modificazione del comportamento.
Salerno-Roma: Ripostes.
Guazzo G.M. (1996).
Psicologia dell'handicap.
Salerno-Roma: Ripostes.
Guazzo G.M. (1998).
Autismo e cognizione. In Guazzo G.M. (Ed.). Autismo infantile:
il progresso continua.
HD - numero monografico, 86. Gorizia: Tecnoscuola, 2-33.
Guazzo G.M., Aliperta D. (1998),
Progetto I.E.M.
Disabilità Evolutive, 1, 7-25.
Guazzo G.M., Ciasullo V., Scardino C. (1996).
L'insegnamento delle attività pre-curricolari ad un soggetto con
ritardo evolutivo: il caso di Andrea.
HD, 69, 6-9.
Hermelin B., O'Connor N. (1970).
Psychological experiments with autistic children.
Londra: Pergamon Press.
Kanner L. (1943).
Autistic disturbances of affective contact,
Nervous Child, 2, 217-250.
Kendall P.C., Dobson K.S. (1993).
On the nature of cognition and its role in psychopathology, in Dobson
K.S., Kendall P.C.,
(Eds.), Psychopatology and cognition. San Diego, Ca: Academic
Press, 3-17.
Koegel R.L., O'Dell M.C., Koegel L.K. (1987).
A natural language teaching paradigm for nonverbal autistic children.
Journal of Developmental Disorders, 17.
Kozloff M.A. (1981).
Il bambino handicappato.
Firenze: Giunti.
Laski K.E, Charlop M.H., Schreibman L. (1980).
Training parent to use the natural language paradigm to increase
their autistic children's speech.
Journal of Applied Behavior Analysis, 21, 391-400.
Lovaas O.I., Schreibman L., Koegel R., Rehm R. (1971).
Selective responding by autistic children to multiple sensory input.
Journal of Abnormal Psychology, 77, 211-222.
Pascoletti C. (1984).
Il dentro ed il fuori: l'attenzione ed il suo funzionamento nell'allievo
con ritardo mentale,
HD, 1, 17-23.
Pitfield M., Oppenheim A.N. (1964).
Child rearing attitudes of mothers of psychotic children,
Journal of Child Psychology and Psychiatry, 5, 51-64.
Ricci C., Censi S. (1997).
Computer e handicap: quali prospettive.
In Guazzo G.M. (Ed.). Il ritardo mentale: nuove metodologie di
intervento.
Salerno-Roma: Ripostes, 187-201.
Rondal J.A. (1996).
Faire parler l'enfant retardé mental.
Bruxelles: LABOR.
Schopler E., Reichler R.J., Devellis R.F., Daly K. (980).
Toward objective classification of childhood autism: childhood autism
rating scale.
Journal of Autism and Developmental Disorders, 10, 91-103.
|