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analisi della letteratura in merito alla comunicazione facilitata
(cenciarelli i., mona a., 1999)


autismo: è legato alla carenza di un enzima? - abstract
(cohen e., 1997)


autismo e linguaggio
(atzori g., 2003)


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(a cura del prof. curatolo p., 1999)


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(rimland b., 1996)


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(mona a., 1999)


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(guazzo g. m., aliperta d., cozzolino g., fabrizio c., liotta d., trinchese i., pervenuto alla bma il 12-11-2000)


l'uso di diete senza glutine e caseina con persone con autismo
(autism research unit, 1999)


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(cenciarelli i., mona a., 1999)


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(d'amore s., onnis l., 1998)


linguaggio segnato o comunicazione simultanea
(edelson s. m.)


risultati a lungo termine per bambini con autismo che hanno ricevuto un trattamento comportamentale intensivo precoce
(O. I. Lovaas, J. J. McEachin, T. Smith, 1993)


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secretina, aggiornamento di dicembre 1999: la questione della sicurezza
(rimland b., 1999)


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(rimland b., 1999)


sistema immunitario e autismo: alcune considerazioni
(colamaria v., pervenuto alla bma il 18-04-2001)


teoria della mente e autismo
(atzori g., 2003)


trattamento comportamentale ed educazione normale e funzionamento intellettivo nei bambini autistici
(lovaas o. i., 1987)


un trattamento omeopatico per l'autismo
(micozzi a., benassi f., 2002)

 

 

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I TESTI DEI FACILITATI SVOLGONO LE FUNZIONI DI LINGUA PARLATA?

Cenciarelli I., 1999
dalla tesi di laurea (30-11-1999) intitolata:
Autismo e Comunicazione Facilitata: un Confronto fra Testi di Facilitati con Quelli di 'Autistici-Dotati' sullo Stile Comunicativo Scritto

 

sommario

- parlato e scritto
- il parlato
- lo scritto
- cosa omette la scrittura
- confronto tra parlato e scritto
- testi di facilitati e di persone con autismo in grado di scrivere di se stesse senza cf
- i self-report di persone con autismo in grado di scrivere autonomamente
- testi di facilitati
- affinità apparente con la scrittura
- una diversa chiave di lettura
- una variante della lingua parlata
- ipotesi per unapproccio alternativo
- conclusioni
- bibliografia

 

 

Parlato e scritto
[sommario]

"[Il parlare e lo scrivere] sono entrambe forme di un linguaggio; è lo stesso sistema linguistico che sottostà ad entrambe. Ma esse sfruttano diverse caratteristiche del sistema, e acquisiscono il loro potere in modi diversi" (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 180).

 

 

Il parlato
[sommario]

Voghera (1993: 34) intende con questo termine riferirsi ad ogni produzione "fonica" e "spontanea", che non sia basata su un testo scritto precostituito.

Anche se la conversazione rappresenta il testo più "naturale" tra gli usi parlati della lingua, sarebbe riduttivo ricondurre esclusivamente ad essa tutte le forme di parlato (Voghera, 1993: 34-35).

A scopo di ricerca, De Mauro et al. hanno messo a punto una metodologia di analisi della lingua parlata (LIP, Lessico di frequenza dell'Italiano Parlato). Gli autori hanno individuato almeno 5 varianti di situazioni comunicative che vanno da un massimo a un minimo di naturalezza:

  1. scambio bidirezionale faccia a faccia con presa di parola libera (conversazione in tutte le sue possibili forme);
  2. scambio bidirezionale non faccia a faccia con presa di parola libera (conversazioni telefoniche);
  3. scambio bidirezionale faccia a faccia con presa di parola non libera (dibattiti, interviste, interrogazioni, ecc.);
  4. scambio unidirezionale in presenza di destinatario/i (lezioni, conferenze, omelie, comizi, ecc.);
  5. scambio unidirezionale o bidirezionale a distanza (trasmissioni radiofoniche e televisive) (Voghera, 1993: 35).

Quello che in questa sede interessa è ricordare che esistono forme differenti di parlato, anche se per semplicità ci si riferirà essenzialmente alla prima modalità, in quanto maggiormente attinente con l'argomento trattato. In questo caso sarà utile riportare la definizione che Berruto dà del parlato tipico: "per parlato tipico si può intendere il parlato conversazionale non sorvegliato" (1993: 37). Il temine "parlato" sarà perciò utilizzato in questa sede con tale valenza.

Il discorso parlato avviene in un contesto spazio-temporale preciso, in una situazione, e, di solito (sebbene con le varianti ricordate poco sopra), prevede l'interazione con un altro interlocutore. Procede per piccoli blocchi semantico-sintattici, con continui aggiustamenti nella formulazione (Berruto, 1993: 37-39; Halliday, 1985 ed. it. 1992: 146-153).

Appare caratterizzato da una ricerca di esplicitazione, attraverso aggiunte successive, perifrasi, ripetizioni. Di conseguenza la pianificazione del discorso risulta minima, "a breve gittata". Ma questo gli conferisce la caratteristica d'essere prodotto velocemente e di adattarsi rapidamente in relazione al mutare continuo del contesto (Berruto, 1993: 39-40; Halliday, 1985 ed. it. 1992: 146-153).

A rafforzare questo aspetto concorrono anche le autocorrezioni che il parlante utilizza e che comunque "emergono e rimangono in superficie, come costitutive del tessuto testuale" (Berruto, 1993: 46).

Il parlato risulta perciò essere in stretta relazione con il contesto, in tutti i suoi sensi, e con l'interlocutore. Per questo la frammentarietà appena descritta risulta in qualche modo compensata dall'uso ricorrente di particelle discorsive "che hanno fra l'altro la funzione di articolare e strutturare con mezzi non sintattici il discorso e di gestire l'interazione con l'interlocutore" (Berruto, 1993: 42). L'esempio che segue è tratto dal testo di Berruto e potrà essere utile a chiarire meglio il concetto appena esposto. Si tratta di una trascrizione di un brano tratto da un'intervista; il segno "-" indica che la lettera che precede era pronunciata in maniera prolungata; i corsivi sono dell'Autore: "[...] mentre quello di prima era- una cos- più- diciamo... medioborghese, ecco... poi man mano che si va in alto nelle scale sociali, eh, c'è un tipo di dialetto romano molto più raffinato..." (Berruto, 1993: 42-43).

Con funzione simile, nel parlato sono presenti componenti prosodiche e paralinguistiche, inestricabilmente legate al messaggio e che spesso aiutano a chiarire il contesto in cui la comunicazione avviene. Esse danno una serie di informazioni che non potrebbero essere ricavate dall'analisi dell'aspetto puramente verbale del messaggio (Perfetti, 1985 cit. in Calfee e Curley, 1995: 145; Halliday, 1985 ed. it. 1992: 61-65).

Proprio in virtù del contesto condiviso, frequente sarà anche il ricorso a termini o concetti impliciti. Per questo motivo, quando si trasporta un testo dalla modalità parlata a quella scritta, spesso si devono aggiungere note che esplicitino alcuni significati (Berruto, 1993: 44-45). Per chiarire meglio, viene di seguito riportato un esempio adattato dall'originale di Berruto (1993: 45), nel quale il primo interlocutore si rivolge al secondo, appena arrivato.

interlocutore 1: "Come ti è andato?"

interlocutore 2: "bene... bene benissimo".

Solo specificando che ci si riferisce ad un esame, ciò che viene riportato diventa comprensibile anche a persone diverse dai due interlocutori.

Uno dei concetti chiave che sono alla base del parlato, è che un testo prodotto in questa modalità possiede caratteristiche contingenti che lo legano ad un particolare momento e contesto (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 61-64).

 

 

Lo scritto
[sommario]

Secondo Halliday la lingua scritta nacque al momento del passaggio dalla vita nomade a quella stanziale, quando la cultura iniziò a divenire più complessa e si manifestò l'esigenza di potersi riferire alla lingua proprio come depositaria di cultura e informazioni. La lingua scritta svolgeva dunque funzioni diverse da quella parlata, e le differenze strutturali tra le due possono in qualche modo ricondursi a questa distinzione originaria (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 77-78).

Il mezzo di trasmissione è visivo. Ciò è possibile grazie all'utilizzo di una serie di segni che hanno un valore convenzionale. Un testo scritto appare articolato chiaramente in parole (divise dagli spazi), frasi (divise dai punti), paragrafi (divisi dai punti a capo). Ciò permette di presentare una notevole mole di informazioni lessicali in forma condensata (Perfetti, 1985 cit. in Calfee e Curley, 1995: 145; Halliday, 1985 ed. it. 1992: 82, 141-142).

Halliday sostiene che "un sistema di scrittura può rappresentare tutte le formulazioni verbali possibili nella lingua: (1) formando espressioni pronte all'uso ('codificate') per la maggior parte degli elementi, e (2) fornendo i mezzi per creare ('codificare') espressioni per elementi che non sono già codificati" (1985 ed. it. 1992: 59).

I sistemi di scrittura tenderebbero perciò all'uniformità, nel senso di fornire espressioni codificate per tutte le formulazioni della lingua (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 60-61).

E' importante tenere presente che, come nel caso del parlato, non esiste un solo tipo di linguaggio scritto: può cambiare lo stile (si pensi per esempio alla differenza tra un ricettario e una poesia), la persona a cui ci si rivolge, ecc. (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 65).

 

 

Cosa omette la scrittura
[sommario]

Benché, in senso ampio, si possa anche affermare che tutto ciò che è dicibile nel parlato lo è anche nello scritto, tuttavia è da notare come ciò non sia esatto a tutti i livelli. Per esempio, le caratteristiche prosodiche e paralinguistiche, proprie del parlato, sono omesse nello scritto. La scrittura infatti è un procedimento "lineare" e la multidimensionalità dei tratti prosodici e paralinguistici sarebbe di difficile rappresentazione. Inoltre, e questo è più importante, essi non rientrano nella funzione del linguaggio scritto in quanto caratterizzano un particolare momento della situazione enunciativa. Alcune caratteristiche prosodiche si possono tuttavia considerare interne al sistema linguistico e vengono perciò rese graficamente con la punteggiatura (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 61-75).

La scrittura normalmente non avviene in un contesto di interazione sociale (esistono anche qui delle eccezioni, le chat-line su Internet, per esempio) ed è per questo motivo che mancano informazioni relative a questo contesto, tanto più che la lettura del testo da parte di un altro avverrà in un momento differito nel tempo e nello spazio e quindi in un contesto differente (Perfetti, 1985 cit. in Calfee e Curley, 1995: 145; Halliday, 1985 ed. it. 1992: 64).

In accordo con Halliday si potrà concludere che "nelle sue funzioni essenziali, la scrittura non è ancorata al momento. Le particolari condizioni sussistenti mentre si scrive non saranno comunque presenti al momento della lettura, in quanto chi legge si trova normalmente a una certa distanza da colui che scrive sia nel tempo che nello spazio" (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 64).

Questo sembra essere uno dei concetti chiave alla base dello scritto. Sarà utile, a questo punto, un confronto tra le due modalità, scritta e parlata.

 

 

Confronto tra parlato e scritto
[sommario]

"La scrittura crea un mondo di cose; il parlare crea un mondo di avvenimenti" (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 167).

In quest'affermazione Halliday ha sintetizzato un aspetto essenziale della sua indagine linguistica sui due media: scritto e parlato sono da considerarsi come varietà funzionali di un'unica lingua (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 59-61).

Ognuno dei due sistemi è dotato di una sua complessità specifica così da rispondere ad esigenze diverse, ed è la risultante di tre aspetti interrelati: la natura del mezzo, le funzioni prestate, le proprietà formali mostrate (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 146-153).

Alla luce di questo si può affermare che i testi ottenuti con la lingua parlata, legati ad una situazione enunciativa particolare, assolvono alla funzione di un dinamico scambio di significati. Per assolvere a tale funzione, essi hanno forma di processi. I testi della lingua scritta veicolano invece significati indipendentemente dalla situazione enunciativa specifica. Hanno pertanto forma di prodotti (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 152, 175).

Un testo scritto presenterà perciò quella che Halliday chiama una visione sinottica, in quanto può essere fissato e assunto come un tutt'uno. La lingua parlata presenterà invece una visione dinamica, non come struttura, ma "come costruzione -o demolizione-"; in essa i fenomeni non esistono: accadono (1985 ed. it. 1992: 175).

Nel caso dello scritto quindi si noterà una tendenza a concentrare i significati nei nomi (processo di nominalizzazione), ottenendo un minor numero di proposizioni, caratterizzate da maggiore densità lessicale, e connesse tra loro da legami di subordinazione. Nel caso del parlato, le informazioni saranno date sotto forma di azioni, i nomi tenderanno a diventare verbi (di cui andranno saturati gli argomenti) e il numero di proposizioni aumenterà, ma esse saranno tra loro meno articolate e connesse da legami di giustapposizione e coordinazione (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 113-120; Berruto, 1993: 46).

Potrà a questo punto risultare utile un esempio, sul modello di quelli proposti da Halliday, per chiarire meglio questo concetto e definirne meglio ulteriori distinzioni che caratterizzano il parlato e lo scritto.

L'enunciato "alla nostra visita al museo seguì il pranzo nel ristorante di fronte" è formulato in modo adatto alla forma scritta. Trasformato in lingua parlata, esso potrebbe diventare: "dopo che abbiamo visitato il museo, siamo andati a mangiare al ristorante che sta là davanti". Dal confronto tra le due versioni possono scaturire diverse considerazioni: 1) nella forma scritta è evidente il processo di nominalizzazione: un solo verbo per una sola proposizione con un elevato grado di densità lessicale; nella forma parlata le proposizioni sono diventate quattro, per altrettanti verbi, tutte più o meno allo stesso livello logico della principale. 2) Alcuni termini che si presentavano come nome nella forma scritta, si ritrovano sotto forma di verbi nel parlato: "visita" è diventato "abbiamo visitato", "pranzo" si è trasformato in "a mangiare". Quest'ultimo passaggio riflette anche un'altra caratteristica importante: 3) "pranzo" non è diventato "pranzare" bensì "mangiare", termine più generico, che può essere utilizzato anche in contesti diversi da questo, ossia nel parlato si tende ad utilizzare pochi termini semplici dai significati ampi che poi acquistano una loro specificità all'interno del contesto particolare. 4) Nell'enunciato in forma scritta il soggetto è un nome, "il pranzo", che tra l'altro nemmeno coincide con chi effettivamente ha compiuto le azioni a cui ci si riferisce ("noi"), mentre un termine soltanto ("nostro") chiarisce questa relazione; nella forma parlata invece "noi" è diventato soggetto e due verbi sono coniugati in relazione ad esso: vi è una certa ridondanza di quello che Halliday chiama l'elemento tematico, ossia dell'elemento a cui fanno riferimento gli eventi raccontati da chi parla, e che nel parlato è effettivamente costituito per la maggior parte da pronomi, mentre nello scritto si tratta spesso di nomi. 5) E' di rilievo anche la tendenza del parlato a preferire i tempi dell'indicativo, ed in particolare presente, passato prossimo (come nell'esempio) e imperfetto (cfr. Berruto, 1993: 46-50; Halliday, 1985 ed. it. 1992: 117-120, 146-150, 154-156).

Al di là di queste considerazioni, ciò che colpisce nel confronto dei due enunciati, è come il primo dia, rispetto al secondo, un senso come di "distacco". Koch e Koch-Oesterreicher lo spiegano nei termini di un'opposizione graduata tra "kommunikative Nähe" (vicinanza comunicativa), che sarebbe caratteristica del parlato, e "kommunikative Distanz" (distanza comunicativa), propria invece dello scritto (Koch, 1986, Koch-Oesterreicher, 1990, cit. in Berruto, 1993: 38-39).

Questa distinzione riguarderebbe modalità generali di impiego e atteggiamento del sistema linguistico. La vicinanza comunicativa sarebbe in relazione con la situazione di enunciazione, ed è da intendersi pertanto sia come fisica che come psicologica e sociale. Inoltre è referenziale tra parlanti e oggetto del discorso. I caratteri del parlato saranno allora tanto più evidenti quanto più ridotta sarà la distanza in tutti i sensi. Al contrario, al crescere di questa i caratteri dello scritto spiccheranno sempre di più (Koch-Oesterreicher, 1990: 8-15 cit. in Berruto, 1993).

Diversamente, vi è anche chi considera la lingua parlata come meno strutturata e complessa di quella scritta. Afferma per esempio Beattie (1993: 33 cit. in Halliday, 1985 ed. it. 1992: 141) che "il parlato spontaneo è diverso dal testo scritto. Contiene molti errori, le frasi sono di solito brevi e anzi l'intero tessuto dell'espressione verbale è punteggiato di esitazioni e silenzi". L'Autore, a riprova di quanto affermato, prosegue riportando la trascrizione di un brano di una conferenza tenuta da un linguista famoso. Beattie mette in evidenza le parole utilizzate per prendere tempo, le autocorrezioni e altri tipi d'esitazione; scrive tra parentesi la misura in millisecondi delle pause di silenzio. Questo, secondo l'Autore confermerebbe la sua ipotesi così come è stata riportata più sopra.

Poco più avanti, però, Halliday critica questa prospettiva mostrando come "tutto ciò serve a dire che nel parlato non potete distruggere le prime stesure" e sottolineando come sia più corretto parlare di complessità diverse per la lingua scritta e quella parlata (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 142, 117).

Questa è un'altra distinzione importante: lo scritto può essere riletto e corretto più volte, mentre nella forma parlata ciò non è possibile e si procede per continue aggiunte ed autocorrezioni che nello scritto non sono visibili perché assorbite nel processo di realizzazione (Perfetti, 1985 cit. in Calfee e Curley, 1995: 145; Berruto, 1993: 40-45).

Alla base dei due media vi è una complessità di ordine differente a seconda se si tratti dell'uno o dell'altro. Halliday (1985 ed. it. 1992) afferma in proposito che "la complessità della lingua scritta è statica e densa. Quella della lingua parlata è dinamica e intricata" (p. 158).

Per concludere, si può tentare di descrivere i due media in maniera sintetica riferendosi, per ognuno dei due, ai concetti di funzione, forma e mezzo. In accordo con quanto sostenuto da Halliday (1985 ed. it. 1992: 146-152), si potrà affermare che:

 

la lingua scritta crea testi che veicolino significati indipendentemente dal qui e dall'ora della situazione enunciativa; per assolvere a questa funzione essi sono caratterizzati da "una complessità lessicale" e si configurano come prodotti;

la lingua parlata crea testi che, ancorati alla situazione enunciativa, contribuiscono ad un dinamico scambio di significati; per rispondere a questa funzione, essi sono caratterizzati da "una complessità verbale" e hanno forma di processi.

 

Testi di facilitati e di persone con autismo in grado di scrivere di se stesse senza CF
[sommario]

L'idea di mettere a confronto i due tipi di testo nasce dall'osservazione empirica che gli scritti di chi, benché affetto da autismo, è in grado di scrivere di se stesso (Williams, 1992; Gerland, 1999) differiscono notevolmente nella struttura, nell'uso dei termini e nel tipo di concetti espressi dagli "scritti" dei facilitati.

Considerato quanto detto nel paragrafo precedente, è chiaro che bisogna indagare con attenzione la possibilità che i testi dei facilitati possano essere considerati effettivamente "scritti", nel senso cioè di "appartenenti alla lingua scritta", e di conseguenza ad essa riconducibili.

In un articolo di Janzen-Wilde (1993) si proponeva di considerare la CF come posta in un punto mediano lungo un ipotetico continuum che va dalla comunicazione orale a quella scritta. A scopo riassuntivo saranno di seguito riportate soltanto le tabelle relative alle caratteristiche dell'uno e dell'altro medium, dalle quali l'Autrice ha tratto spunto per le sue riflessioni.

 

Tab. 1: relazione tra 'orality' e cf

characteristics of 'orality'

source

associated with fc?

     
Used to regulate social interactions

Westby, 1985; Hildyard e Hidi, 1985; Chafe, 1985
 

YES

Topic usually here and now
 

Westby; Rubin, 1987

?

Familiar words; repetitive syntax and ideas
 

Westby; Rubin

?

Intonation and non-verbal cues important for cohesion and conveying meaning
 

Westby; Tannen, 1985; Hildyard e Hidi; Wallach, 1990

No

Usually has fragmented quality
 

Chafe; Redeker, 1984

?

Rapid rate contributes to dysfluencies
 

Chafe

No

Usual lack of permanence
 

Chafe

depends on device

Listeners often give immediate feedback
 

Redeker; Rubin

Yes

 

Tab. 2: relazione tra 'literacy' e cf

characteristics of 'literacy'

source

associated with fc?

     
Slow, deliberate process because of mechanical constraints
 

Chafe, 1985; Rubin, 1987

YES

No need to worry about keeping the listener's attention
 

Chafe

NO

Often abstract or unfamiliar topics
 

Westby, 1985

?

Concise use of syntax and ideas
 

Westby

?

Cohesion based on linguistic markers
 

Westby; Tannen, 1985

?

Can be polished and perfected before it is read
 

Hildyard e Hidi, 1985; Chafe; Redeker, 1984; Rubin, 1987
 

YES AND NO

Integrated quality

Chafe; Redeker; Westby; Rubin
 

?

Usually detached spatially and temporally from readers
 

Chafe; Redeker; Westby; Rubin

YES AND NO

Visually permanent

Chafe; Redeker; Rubin
 

depends on device
 

 

(Janzen-Wilde, 1993).

 

Si potrà ora approfondire l'analisi utilizzando come parametri quelli proposti da Halliday (1985) e da Berruto (1993).

 

 

I self-report di persone con autismo in grado di scrivere autonomamente
[sommario]

Ecco di seguito riportati alcuni esempi di self-report di persone con queste cartatteristiche.

  1. "Detestavo le risate degli adulti perché erano brutte e improvvise. I loro visi si distorcevano senza preavviso, le bocche si spalancavano mostrando o denti e facendo uscire un rumore quasi assordante per me. Preferivo i loro sorrisi, perché erano più tranquilli, malgrado spesso anche quelli mi ferissero" (Gerland, 1999: 23).
  2. "I genitori di bambini autistici non dovrebbero mai pensare di mandare i loro figli nelle scuole normali, perché la sofferenza supera tutti i benefici acquisiti" (Joliffe cit. in Peeters, 1994 ed. it. 1999: 124).
  3. "La casa sembrava piena di colori, e tutto succedeva troppo in fretta perché io riuscissi a rendermene conto, ma facevo sempre le mosse giuste. Credo che fossi un po' come una persona in stato di shock, che senza sapere come agisce con grande prontezza" (Williams, 1992 ed. it. 1992: 44).

Tutti e tre i testi citati fanno parte di racconti autobiografici degli stessi autori. Evidentemente questo lavoro implica il mettersi a scrivere in una situazione di concentrazione su se stessi. Che vi sia stato un processo di revisione delle bozze lo si intuisce dalla scorrevolezza e coerenza del testo, che si presenta con un carattere tendenzialmente ipotattico, ossia costruito secondo proposizioni in rapporto di subordinazione (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 155).

Sono assenti le indicazioni sul contesto in cui i testi sono stati prodotti. D'altro canto non sembra essercene bisogno: veicolano già tutte le informazioni necessarie alla loro comprensione e nulla sembra implicito.

La punteggiatura divide abbastanza bene le unità grammaticali e di significato.

Anche se in maniera non eclatante si può vedere anche un certo grado di nominalizzazione: "si distorcevano senza preavviso", "un rumore quasi assordante", nell'esempio a); "i benefici acquisiti", nell'esempio b).

Tenendo presente che ci si trova comunque di fronte ad una traduzione dalla lingua originale, si può tuttavia riscontrare anche l'uso di forme verbali non all'indicativo, ipotizzando che in ogni caso la traduzione rifletta un andamento stilistico paragonabile a quello del testo originale: un congiuntivo ("mi ferissero") in a) e un condizionale ("non dovrebbero") in b).

E' anche riscontrabile una certa "distanza comunicativa", nell'accezione di Koch e Koch-Oesterreicher (1986, 1990 entrambi cit. in Berruto 1993: 38-39), dovuta con tutta probabilità allo stile descrittivo di tutti e tre i testi. Bisogna però usare cautela nel formulare questa ipotesi, dato che non bisogna dimenticare che gli autori dei testi sono affetti da autismo o da Sindrome di Asperger e pertanto l'impressione di "distanza" potrebbe anche essere in relazione alle difficoltà che queste persone hanno nella gestione dell'emozione e del contatto interpersonale.

Anche se con queste riserve, gli elementi osservati finora sembrano tutti convergere verso una interpretazione abbastanza univoca: i testi presi in considerazione si possono attribuire con tutta probabilità alla lingua scritta.

 

 

Testi di facilitati
[sommario]

Ecco ora quattro testi ottenuti con il metodo della CF. Prima di presentare i brani, sarà bene anticipare che il testo b) non è pubblicato: si tratta di un testo prodotto a Roma nel 1998 da un bambino con tratti autistici di circa 9 anni insieme alla suo facilitatore abituale.

 

a) "non ti va che sono davvero triste quando manca una perla[?] sono così deluso perché tutti hanno dei dubbi se scrivo tutto da solo l'hanno detto quelli del centro e io l'ho nel cosiddetto studio c'era persino un'insegnante anche una psicologa io ero nell'altra stanza e riuscivo a sentire tutto" (Sellin, 1993 ed. it. 1995: 20).

 

b) " RIPREBNDIMI UUMIL,MENTE MI SENTO JNON BENE

COME IL ESOL-ITO

IOO HNON RIUSCIVO A CONTROLLARE MENO

DEL SOLITIO I MUOVIMENTI DI TUTTO IL

CORPICI INO DA VVERO MI SONO SPAVENT

SATISSIMO I O NON LO èPOTREI DIRE D SE

LO FAcEVA BWENE O Male quella

schifwezza di metilglicina" (1998).

 

c) facilitatore: "What did Jim want to buy?"

facilitato: "JIM WANTEDBBBGUN" (Weiss, Wagner, Bau-

man, 1996).

 

d) Facilitator. "What was your thinking in the years before anyone knew who you really were? How did you cope?"

Mark: "got rewarded. got crazy. retarded feared. just heresy

that your greater thinking hurt. just heresy that your goofy

kind of thoughts got rewarded. got deadened. not grew. great

reward not. just hoping kill kill, get rhid of"

Facilitator. "Get rid of what?"

Mark: "the problem. get rhid of the problem. Retarded hurt."

Facilitator. "Please say more. I want to understand exactly

what you mean by 'retarded hurt.'"

Mark: "word."

Facilitator. "What word?"

Mark: "retarded word hurt. just you think about [it]. Felt

girded then. freed from retarded now."

Facilitator. "Freed means?"

Mark: "let loose. flying. great" (Lapos, 1997).

 

I testi appena visti hanno un importante aspetto in comune: sono tutti rivolti ad un interlocutore (il facilitatore) e sono stati ottenuti in una situazione di interazione, di solito a due. Come risulta evidente, soprattutto nel testo b) i testi presentano diversi errori di digitazione e, in generale si può dire che non siano stati rielaborati. Ciò però non è completamente vero: come già osservato anche da Janzen-Wilde (1993), in alcuni casi, con l'aiuto del facilitatore, vengono effettuate delle correzioni, vengono, se necessario, aggiunti gli spazi tra le parole o un minimo di punteggiatura, si cancellano le lettere ripetute. Riguardo l'ultimo testo, nel quale la comunicazione del facilitato può sembrare più "pulita" che negli altri tre, l'autrice stessa ci informa che "Mark is not one to willingly spend time correcting or editing his communication. So, at this point I summarized my impression of what he had typed. It was as you read it above." (Lapos, 1997). Non sempre è facile quindi stabilire se un testo prodotto da un facilitato sia stato rielaborato o meno. Ma questo aspetto può passare in secondo piano quando si considera che praticamente nessuno dei testi riportati è completamente comprensibile in tutti suoi significati, se visto isolatamente. Nell'esempio a) una nota a piè di pagina nel testo originale si è resa necessaria per chiarire che con il termine "perla" Sellin intendeva dire "biglia"; nell'esempio b) non è facile capire che con la frase iniziale il bambino acconsente ad essere ripreso con una videocamera e successivamente passa ad esporre gli effetti indesiderati di un farmaco (la metilglicina) dal lui assunto precedentemente; nei testi c) e d), poi, si è reso necessario riportare anche le affermazioni del facilitatore, perché le parole dei facilitati acquistassero senso. Il testo c), tratto dalla ricerca sperimentale di Weiss, Wagner e Bauman (1996), è un esempio di come si presenta spesso un testo scritto con la CF e non modificato (le esigenze di oggettività dell'esperimento non lo permettevano). L'aspetto che risalta di più è perciò il fatto che in questi i testi non tutta l'informazione è veicolata dalle parole del facilitato: queste vanno inserite nel contesto in cui sono state prodotte, per acquisire senso. Nell'esempio d) si può vedere come neanche il facilitatore sia certo di quel che il facilitato intenda dire, tanto che gli chiede chiarimenti sui termini usati. Le informazioni sul contesto appaiono qui di fondamentale importanza.

Le frasi risultano brevi ed hanno un andamento frammentario e per aggiunte successive, in particolare negli esempi a) e d). Tutt'altro che lineari, quindi, questi testi presentano un carattere essenzialmente parattatico (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 155), cioè costituito da proposizioni giustapposte o in rapporto di coordinazione.

La punteggiatura è praticamente assente in tutti e quattro i testi, se si eccettua l'ultimo, che però è stato rielaborato dal facilitatore. Si può anche individuare un caso di parola ripetuta ("kill") in d) e, nel testo a), un termine ("cosiddetto", riferito ad un sostantivo di uso comune) paragonabile a quelli che nel parlato sono utilizzati come intercalare o come "marchingegno verbale 'prenditempo'" (Castellani Pollidori, 1990: 225 cit. in Berruto, 1993: 44). Va però usata particolare cautela in affermazioni del genere, perché restano per ora sconosciute le modalità e i meccanismi alla base del pensiero di persone con autismo. Quanto detto va quindi collocato nella prospettiva di un'area tematica da indagare e da approfondire, altrimenti rischierebbe di essere una mera illazione.

Nel testo d) sono presenti molte omissioni tipiche del parlato informale inglese. In realtà, dal un punto di vista della correttezza grammaticale, si sarebbe dovuto avere: "(I) got rewarded. (I) got crazy. (I) feared (being) retarded. (it is) just (an) heresy that your greater thinking hurt...".

Il numero di verbi è abbastanza elevato in tutti e quattro i testi: solo nella frase di Mark riportata appena sopra se ne contano 8; quelli presenti nel testo a) sono 12, e sono ancora 8 quelli nel testo b). la scelta dei modi verte sull'indicativo, coniugato ai tempi presente, del passato prossimo e dell'imperfetto.

Il concetto di "vicinanza comunicativa", così come è inteso da Koch e Koch-Oesterreicher (1986, 1990 entrambi cit. in Berruto, 1993: 38-39) sembra potersi riferire a tutti i testi presi in considerazione, tranne forse per c), che comunque è stato prodotto in un contesto specifico in cui veniva richiesta una particolare informazione su un evento che non riguardava direttamente il soggetto.

La maggior parte degli elementi presi in considerazione finora converge verso l'ipotesi che i testi prodotti con la CF siano da considerarsi linguaggio parlato, e non scritto.

 

 

Affinità apparente con la scrittura
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E' certamente vero che alcuni aspetti della CF sono più simili alla comunicazione scritta, piuttosto che parlata e sarà bene considerarli più in dettaglio.

  1. I messaggi della CF si costituiscono in maniera lenta (Janzen-Wilde, 1993). Se si valuta questo aspetto con più attenzione, ci si accorge che la lentezza della CF e della scrittura sono di natura differente: la seconda sembra essere un semplice rallentamento, rispetto al parlato, dovuto all'utilizzo di un mezzo di espressione meno rapido (penna o macchina per scrivere). Nel caso della CF, in cui le lettere vengono digitate molto più lentamente che se si scrivesse a macchina, la causa della lentezza sembra essere insita nelle difficoltà di natura espressiva o motoria dell'utente, che non disporrebbe di alternative più rapide per comunicare.
  2. Se il messaggio può permanere in qualche modo (schermo del computer, nastro cartaceo del Cannon Communicator, ecc.), allora esso può essere corretto poiché rimane visibile (Janzen-Wilde, 1993). Anche qui, questo aspetto potrebbe avere significati diversi, a seconda se ci si riferisca alla CF o alla scrittura. Nel primo caso, le correzioni (quando vengono fatte) sembrano vertere più su aspetti ortografici del messaggio, piuttosto che sulla sintassi o sul contenuto, come invece è prerogativa della scrittura.
  3. I testi della CF che permangono possono anche essere letti in altri momenti, in altri luoghi, da altre persone (Janzen-Wilde, 1993). L'analisi portata avanti sinora ha però messo in evidenza come questo aspetto sia problematico in quanto, ogni qual volta si separa uno di questi testi dal contesto della situazione in cui è stato prodotto, si tende a perdere una serie d'informazioni che danno significato al testo stesso. Come si è visto l'informazione necessaria alla comprensione di un testo scritto è invece già tutta in esso contenuta.
  4. I messaggi non verbali di prosodia e paralinguistici non sono affidabili, data la loro difficile interpretazione in casi di autismo: spesso i facilitati possono scrivere qualcosa che non è congruente con l'espressione mimica del momento (Janzen-Wilde, 1993). Questo problema esiste, ma nella CF vi è un elemento di informazione in più, per quanto riguarda i messaggi non verbali, che non è presente né nella scrittura né (di solito) nella comunicazione verbale usuale: il contatto fisico dei due interlocutori. Questo, assieme allo sguardo, potrebbe essere un importante regolatore dell'interazione tra facilitato e facilitatore.

 

 

Una diversa chiave di lettura
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Dagli elementi considerati finora, scaturisce l'ipotesi che la CF sia una possibile variante della lingua parlata, come è per esempio il linguaggio dei segni utilizzato dai sordomuti che, pur essendo molto diverso nella forma dalla lingua parlata usuale, poiché utilizza un canale sensoriale visivo, anziché acustico, tuttavia svolge con successo funzioni analoghe a quest'ultima (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 179-180).

Nel considerare l'eventualità che anche la CF sia una variante della lingua parlata usuale, potrebbe essere utile un'indagine più approfondita delle implicazioni che ne deriverebbero sia per quanto riguarda l'oggetto di studio, sia per quanto riguarda la metodologia adatta ad accostarsi ad esso.

 

 

Una variante della lingua parlata
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Ad un'analisi più attenta dell'ipotesi formulata, risulta di una certa rilevanza il paradigma di ricerca utilizzato per studiare il fenomeno. Se infatti della CF vengono studiati in particolare i messaggi digitati e si considera questi ultimi come indicatori della validità del metodo, ci si espone al rischio di trattarli come prodotti (così come lo intende Halliday, 1985), prescindendo dal contesto in cui essi sono stati espressi. Di più: al fine di isolarli, si utilizzano accorgimenti che modificano la situazione in cui la CF ha luogo allo scopo di tenere sotto controllo variabili diverse dalla variabile dipendente scelta.

Secondo l'ipotesi che si sta considerando, invece, i messaggi digitati potrebbero essere l'espressione di un processo (sempre nell'accezione di Halliday, 1985), ed è quest'ultimo che andrebbe indagato, senza tentare di isolarne singole parti, snaturandole così del loro significato, definibile invece solo se messo in relazione con il contesto adeguato che, nel caso specifico, potrebbe essere una seduta di CF classica, o meglio: uno spontaneo dialogo tra facilitatore e facilitato.

La precedente affermazione va ulteriormente problematizzata: il processo in questione infatti non si esaurirebbe in una singola seduta di CF. La tecnica della CF prevede infatti un cammino che copre un periodo relativamente lungo della vita di una persona, fatto di nuove acquisizioni che passo passo dovrebbero portare l'individuo a comunicare in maniera sempre più autonoma, fino al raggiungimento della scrittura indipendente (Biklen, 1993, 1993a, 1995, 1996a).

Aspetti così complessi del fenomeno non sembrano studiabili con ricerche che in una o poche sessioni valutino i punteggi di gruppi di soggetti a singole prove (Blight e Kupperman, 1993; Bomba, O'Donnell, Markowitz, Holmes, 1996; Cabay, 1994; Eberlin, Connachie, Ibel, Volpe, 1994; Hudson, Melita, Arnold, 1993; Klewe, 1993; Moore, Donovan, Hudson, 1993; Moore Donovan, Hudson, Dykstra, Lawrence, 1993; Regal, Rooney, Wandas, 1994; Smith, Haas, Belcher, 1994; Vàzquez, 1994).

Inoltre le esigenze di setting sperimentali del genere portano a strutturare situazioni che potrebbero forzare il processo che s'intende studiare entro confini che non gli sono propri, trasformandolo in qualcosa di diverso da ciò che ci si era proposti inizialmente di indagare; oppure potrebbero non lasciare tempo sufficiente a far sì che gli effetti del fenomeno siano osservabili.

 

 

Ipotesi per un approccio alternativo
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Da quanto detto fin qui, il paradigma più adeguato per lo studio della CF, in un'ottica che consideri i messaggi digitati come parte non isolabile di un processo, sembra essere quello delle ricerche longitudinali su casi singoli o piccoli gruppi di soggetti. Questo tipo d'indagine permette anche di adeguare il disegno sperimentale ai mutamenti di situazione che in un lungo periodo di tempo sono pressoché inevitabili. Una prospettiva del genere sembra essere particolarmente vantaggiosa, se si considera che nel caso specifico potrebbe essere maggiormente auspicabile adattare il disegno di ricerca all'oggetto di studio, piuttosto che il contrario. Si ricorda che con questa affermazione si vuole intendere che, imponendo vincoli di natura strutturale (per esempio le diverse tecniche di screening) o metodologica (come il concentrare l'osservazione sui messaggi digitati, tralasciando altri importanti fattori) allo studio di un processo, si rischia di alterare il sistema in qualche sua parte, col risultato però di cambiarlo nella sua totalità e di trovarsi pertanto di fronte ad un fenomeno diverso da quello che si voleva osservare. Si potrà concludere quindi con Watzlavick, Beavin e Jackson che "ogni parte di un sistema è in rapporto con le parti che lo costituiscono che qualunque cambiamento in una parte causa un cambiamento in tutte le parti e in tutto il sistema. Vale a dire, un sistema non si comporta come un semplice composto di elementi indipendenti, ma coerentemente come un tutto inscindibile" (1967 ed. it. 1971: 118).

Non va nemmeno dimenticato però che è importante essere a conoscenza del maggior numero di variabili implicate e, se possibile, misurarle, evitando tuttavia di intervenire su di esse modificandole, per le ragioni già viste. Solo così ci si potrà avvicinare agli standard di oggettività richiesti per una ricerca valida, in modo da non esporsi alle critiche, fondate, mosse finora alle osservazioni di tipo naturalistico ed etologico, indicate da alcuni Autori come aneddotiche e "pseudo-scientifiche" (Jacobson, Mulick, Schwartz, 1995).

Ciò significa mettere a punto griglie di osservazione sufficientemente strutturate, la cui validità sia da verificarsi in situazioni reali.

In questa direzione sembra muoversi la ricerca di Grayson ed Emerson (1996), che si sono limitati a riprendere con una videocamera le normali sedute di CF, senza dare al facilitato o al facilitatore nessuna consegna in particolare e senza utilizzare prove che, trattando i messaggi digitati come dati, fossero volte a verificare chi fosse effettivamente l'autore dei messaggi. Oltre a Duchan (1995), anche Halliday a questo proposito afferma che "ciò che accade nel dialogo è che i parlanti hanno in comune la produzione del discorso" (Halliday, 1985 ed. it. 1992: 160).

Le sequenze videoregistrate da Grayson ed Emerson sono state successivamente sottoposte ad un'analisi sistematica in base ad una griglia di osservazione messa a punto induttivamente da Grayson e Grant (1995) in ricerche precedenti. In questo modo fu possibile tenere sotto controllo degli indicatori (come lo sguardo del facilitato e del facilitatore alla tastiera o al display con le lettere, oppure l'iniziativa del soggetto di cancellare lettere digitate per errore) che, presi nel loro insieme, convergevano verso la possibilità che il soggetto fosse l'autore dei messaggi (Grayson e Emerson, 1996).

Un aspetto importante è come il sostegno si sia spostato, durante il corso della ricerca, dalla mano all'avambraccio del soggetto, fino ad arrivare ad un semplice contatto delle dita del facilitatore con questo. Con il diminuire del livello di sostegno diventa sempre meno probabile l'ipotesi di influenza (nel senso negativo del termine) da parte del facilitatore.

La ricerca in questione tuttavia lascia alcune perplessità. La più rilevante è che i risultati non sembrano sufficientemente quantificati e sono espressi più in forma di commento che di dato. Oltre a questo, non sono specificati i momenti temporali in cui si verificavano variazioni nel sostegno; non vengono fornite informazioni specifiche riguardo chi fosse il facilitatore, né le sue competenze in merito; non è esplicitato da quanto tempo facilitato e facilitatore lavorassero insieme.

E' bene specificare che l'intento non era quello di proporre la ricerca di Grayson ed Emerson come una sorta di "modello ideale" a cui fare riferimento. Quello che interessava, era mettere in evidenza un aspetto interessante del lavoro citato, fermi restando tutti i suoi limiti: e cioè il tentativo di strutturare il più possibile lo strumento d'indagine adattandolo nello stesso tempo ad un approccio globale, adeguato al tipo di situazione che si intende studiare, cercando di intervenire in senso manipolatorio sul minor numero possibile di variabili così da non alterare sostanzialmente il processo nel suo insieme.

Un disegno di ricerca che preveda una fase di testing e poi un successivo follow-up, potrebbe non risultare adeguato ad indagare il fenomeno così come è stato descritto in questa sede: si analizzerebbero infatti due momenti separati di un continuum che non sembra essere, nel suo insieme, costante e immutabile, così come non lo è la comunicazione verbale nella quale, la chiarezza dei messaggi, la comprensione, i riferimenti al contesto variano e si può tentare di spiegarli solo all'interno di una visione d'insieme. In altre parole, con un disegno sperimentale che preveda un follow-up non vi sarebbe nessuna garanzia di star prendendo in considerazione momenti significativi dell'intero processo.

Per concludere, ecco riportata un'interessante considerazione di Ashby (1956, cit. in Watzlavick, Beavin, Jackson 1967 ed. it. 1971: 118-119): "la scienza, in un certo senso, si trova oggi di fronte a un bivio. Per due secoli ha studiato sistemi che sono intrinsecamente semplici o possono essere analizzati scindendoli in componenti semplici. Il fatto che un dogma come: 'i fattori devono essere variati uno alla volta' abbia potuto essere accettato per un secolo, dimostra soprattutto che gli scienziati hanno studiato soprattutto dei sistemi che permettevano l'uso di un simile metodo. Si tratta però di un metodo che spesso è assolutamente inapplicabile nel caso di sistemi complessi", e la CF sembra essere uno di questi.

 

 

Conclusioni
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Come si è visto, i testi dei facilitati assolvono ad una funzione ben diversa da quelli di "autistici dotati" (che possono considerarsi effettivamente "scritti"): essi si svolgono all'interno di un contesto relazionale, di comunicazione tra interlocutori, hanno pertanto le caratteristiche della comunicazione parlata, e il fatto che spesso si presentino "stampati su un foglio di carta" è da attribuirsi al sistema utilizzato per superare l'ostacolo che le persone affette da autismo non utilizzano la voce per parlare. Questo non implica tuttavia che non siano in grado di "parlare" attraverso un altro mezzo.

E' importante però non cadere preda di facili suggestioni: non si vuole assolutamente implicare che "la CF funziona": il problema della sua validità resta aperto e non si può prescindere dai dati sperimentali sfavorevoli finora accumulati.

Il motivo per cui si sono presi in considerazione per l'analisi testi di facilitati, senza porsi il problema di chi ne fosse realmente l'autore, è che la finalità era di valutare la loro funzione all'interno di una situazione. Un problema del genere è 'sovraordinato' a quello della validità del metodo, e soltanto chiarito il primo si può pensare di mettere a punto un disegno adatto a studiare il secondo.

Questo dimostra quanto sia importante definire una chiara cornice metodologica all'interno della quale collocare gli elementi considerati, perché è in base a come viene eseguita quest'operazione che scaturiranno delle relazioni fra parti che daranno significato al lavoro nel suo insieme.

 

 

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